Il gattopardo e la tigre di Igor Man

Il gattopardo e la tigre Il gattopardo e la tigre L'azzardo del grande vecchio di Giava PAGINA I Jusuf Habibie sappiamo che ha studiato in Germania, che possiede un «sito internet», che ha messo in piedi un'impresa per produrre l'aeroplano Garuda: nel 1995 il progetto perse 81 milioni e rotti di dollari, salvandosi grazie ai sussidi statali. Quand'era ministro della ricerca e della tecnologia tentò (invano) di costruire centrali nucleari ignorando (forse) che l'Indonesia è un paese «ad altissimo rischio sismico». «Se qualcuno è intelligente tanto da poter progettare aerei, spero che sia abbastanza capace di non rimanere un burattino», così ha commentato la sua nomina il dottor Amien Rais, l'uomo più di spicco dell'opposizione musulmana. Ma Pramoedya Ananta Toer ha osservato che gli aerei progettati dalsuccessore di Suharto «regolarmente cadono» e non potrebbe essere altrimenti «poiché il "pupillo" è tutto fuorché un uomo intelligente». Toer è un personaggio mitico: Sukarno, l'uomo che riscattò l'Indonesia dal colonialismo, il «padre della patria», mazziniano convinto e cultore delle belle arti, teneva in gran conto questo scrittore anticonformista e visionario. Chi scrive lo incontrò più volte, or è trent'anni e passa, al breakfast in casa Sukarno: papaya e uova al bacon alle 5 del mattino, prima che il giorno s'arroventasse. Toer venne arre stato quando l'allora maggiore Suharto mise definitivamente fuori giuoco Sukarno col suo golpe spietato. Uscito di galera nel '79, Toer è tuttora agli arresti domiciliari; ha scritto libri di successo, ha fatto da (inascoltata) Cassandra durante il lungo regno di Suharto: «Temo che dovrò continuare a fare la Cassandra». Non è un cambiamento bensì un'operazione gattopardesca, quella apparecchiata da Suharto & Soci, sostiene il vecchio romanziere e con lui concorda la residuale intellighen- tzia (già maoista) e il «popolo verde», vale a dire i 28 milioni di aderenti alla Muhammadiyàh, Il secondo «gruppo» politico islamico dell'Indonesia. Il primo è il Nàhdlatul Ulema guidato da un santone in carrozzella, il semicieco GusDur. Qualcuno ha scritto che la situazione attuale ricorda «paurosamente» quella di trentatré anni fa. E' vero, con la differenza che allora il malcontento che Suharto riuscì a cavalcare era una tigre anemica giacché Sukarno era amato dal popolo, mentre oggi nella giungla dei disperati, vittime del determinismo selvaggio dello sviluppo del sottosviluppo, sta crescendo una tigre terribile. Più forte di cento gattopardi. Suharto, che si è immedesimato nel personaggio del saggio re giavanese Madjapahit (XIV secolo) e che ama farsi chiamare dai gazzettieri di re¬ gime il Grande Vecchio di Giava, a chi gli rimproverava una dittatura personale, una «cleptocrazia», ha sempre risposto: «In Indonesia siamo tutti una famiglia». Per quanto lo riguarda, certamente sì: i Suharto Boys, vale a dire i suoi figli (in numero di cinque), si spartiscono la ricchezza vera del paese, ma gli altri, tutti gli altri, vale a dire la stragrande maggioranza della popolazione, si spartiscono un'immensa miseria. Trent'anni fa fu relativamente facile spodestare Sukarno: era uscito dalle Nazioni Unite «ancelle meschine degli Usa»; s'era alleato col Pki (il pc di matrice cinese); sognava (come ebbe a dirmi in un'allarmante intervista) «un asse Giakarta-Pechino sì da scacciare gli yankee dall'Asia»; proclamava «al diavolo gli americani e i loro aiuti» e, ultimo ma non meno importante, in Vietnam cominciava a combattersi una guerra vera dagli esiti incerti. Oggi è diverso. Dal 1990 al 1996 l'Indonesia dei Suharto Boys ha avuto una favolosa crescita interna dell'8 per cento. Epperò si è andati avanti alla cieca, contagiati dal boom (apparente) delle «tigri asiatiche» aprendo il mercato alle banche private per contrastare quelle pubbliche, partorendo così una galassia di imprese finanziarie che han finito col render fragile il sistema bancario. L'anno nero è il 1997: la crisi dei mercati asiatici colpisce la rupìa indonesiana che rapidissimamente perde il 50 per cento del suo valore. Suharto è costretto a ricorrere al Fondo Monetario Internazionale che impone la solita ricetta «ammazzapoveri» (la definizione è di Sadat) la quale provoca il solito, brutale aumento dei prezzi. Nel '98 la crisi si fa più feroce, i disperati scendono in piazza, l'esercito gli spara addosso. Il 15 di maggio Suharto rientra precipitosamente dal Cairo, abbassa i prezzi, annuncia, però, che non si dimetterà: la rupìa si svaluta del 20 per cento in una settimana. Il resto è cronaca calda, sporca di sangue (i morti ammazzati sarebbero più di 2 mila). Nell'immediato la farsa della successione indolore è, in ogni caso, una boccata d'ossigeno per tutti i mercati finanziari. Ma domani? Le banche indonesiane sono in crisi e pure le imprese, il punto di riferimento giapponese è scomparso sicché l'unica via d'uscita dalla crisi economica rimane quella politica. Un cambiamento effettivo, tuttavia, passa per la cruna degli islamici: Amien Rais non sarà un nuovo Khomeini ma non sembra essere neanche un nuovo Bani Sadr. Vuole «tutto e subito» e al posto della «solidarietà dei popoli» propugna la «solidarietà dei poveri». Il semicieco GusDur è troppo organico ai Suharto Boys, gli studenti sono senza programma né guida: ancora una volta il destino dell'Indonesia è nelle mani dell'esercito. Che non è più quello di trent'anni fa: i giovani ufficiali tornano all'islam. Un islam certamente non algerino ma apparentemente iraniano, cioè di impronta sciita. Suharto, come dicono i cinesi, «ha perduto il favore del cielo»: gli indonesiani dovranno conquistarselo. A costo di lacrime, sudore, sangue. Igor Man Il dittatore ha perduto la carica, non il potere: governerà tramite S suo pupillo. Ma il Paese non è più quello di trentadue anni fa Il ritratto di Suharto viene tolto dopo 32 anni dal palazzo presidenziale