Quindici contagiati dalla febbre atomica di Aldo Rizzo
Quindici contagiati dalla febbre atomica EQUILIBRIO DEL TERRORE ~~l IP? 1 V Quindici contagiati dalla febbre atomica MIO Dio, che cosa abbiamo fatto?» («My God, what have we done?»), è la celebre frase di Robert Lewis, il copilota del B-29 «Enoia Gay», quando osservò dall'alto i primi effetti della bomba atomica sganciata su Hiroshima alle 8,15 (ora giapponese) del 6 agosto 1945. L'orrore di Lewis non impedì che un'altra bomba fosse lanciata tre giorni dopo su Nagasaki. Poi tutti dissero che fatti del genere non sarebbero più accaduti, e in effetti non sono accaduti, fortunatamente, ma al possesso, come dire, precauzionale della nuova e terribile arma furono subito in molti ad aspirare. Il primo, naturalmente, fu Stalin, che realizzò il suo disegno quattro anni dopo, nel 1949. Il fatto è che la disponibilità di un potere distruttivo così immenso e la minaccia anche solo teorica di usarlo modificavano radicalmente i concetti strategici e anche politici fino ad allora vigenti. Mettevano in discussione lo stesso concetto di sovranità nazionale. Studiosi come Pierre Marie Gallois in Francia e come Roberto Gaja in Italia sostennero che chi era sprovvisto della Bomba era di fatto ridotto a una condizione «coloniale». Su questa base, la Francia di de Gaulle edificò la sua «force de frappe», dopo la prima esplosione sperimentale nel Sahara nel 1960. Quattro anni dopo, fu la volta della Cina di Mao, mentre la Gran Bretagna era entrata nel «club» nucleare già nel 1952, in questo caso d'intesa con gli Stati Uniti. Una tentazione la ebbe anche l'Italia, non da sola, ma con Germania e Francia, nel 1957: un protocollo d'intesa fu firmato dai tre ministri della Difesa (Taviani, Strauss e Chaban Delmas), poi arrivò de Gaulle e decise di fare tutto da solo. Dunque nel 1964 i membri del club erano cinque, non a caso gli attuali deten tori del diritto di veto nel Consiglio di sicurezza dell'Onu. Oggi, trentaquattro anni dopo, sono otto. Dell'India già si sapeva dal 1974, quando compì il suo cosiddetto «esperimento pacifico»: solo che ora di esperimenti ne ha compiuti cinque, e con l'esplicita avvertenza che la loro finalità è militare. Gli altri due sono il Pakistan (anche se ancora non ha fatto il suo scoppio dimostrativo) e Israele. In fondo, l'incremento non è stato grande, numericamente, se si pensa che sono circa quindici i Paesi tecnicamente in grado di fabbricare la Bomba, ma quelli che hanno deciso di farlo, sfidando il Trattato antiproliferazione del 1970, rinnovato nel 1995, sono Paesi che agiscono in situazioni regionali critiche, segnate da tensioni fortissime. Anche oggi c'è chi pensa che la proliferazione sia inevitabile e persino in qualche misura necessaria, nel senso che riflette su scala regionale quella logica della dissuasione reciproca, su basi di uguaglianza, che ha funzionato tra le superpotenze, durante la Guerra fredda, salvando la pace mondiale. Altri, i più, ritengono che se la gara nucleare si allarga, fra Paesi o regimi non sempre responsabili (per non parlare della possibilità che vi entrino i terroristi), aumentano statisticamente i rischi di un conflitto e progressivamente si sfalda quello che, dopo Hiroshima e Nagasaki, è pur sempre rimasto un tabù. Certo, occorre che le superpotenze procedano speditamente verso un «loro» disarmo, per dare l'esempio, e che i benefici «civili» della tecnologia nucleare siano accessibili a tutti. Basterà? L'arma atomica, purtroppo, non può essere «disinventata», ed è con questa realtà che dobbiamo convivere e confrontarci. Aldo Rizzo
Persone citate: Chaban Delmas, Mao, Pierre Marie Gallois, Robert Lewis, Roberto Gaja, Stalin, Strauss, Taviani
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