La guerra dei trentanni nel patrimonio genetico di Domenico Quirico

La guerra dei trentanni nel patrimonio genetico F ANALISI La guerra dei trentanni nel patrimonio genetico SI può sfuggire al cappio di una storia intossicata da trent'anni di guerre? Si può cancellare un immemorabile pedigree di 100 mila morti, 15 mila mutilati, oltre un milione di profughi? Eritrea ed Etiopia sembravano una parte di Africa suscettibile di riscatto, capace di scacciare dall'immaginazione e mestamente collocare nella memoria il loro sanguinoso passato. Ma come quei parassiti che muoiono dopo aver depositato le loro uova sotto la pelle, le vecchie rivalità tornano baldanzose ad accendere fuochi di guerra. Il guaio è che, quando si riferiscono all'Eritrea, i pensieri dei dirigenti di Addis Abeba, in ogni epoca, sembrano stampati su carta carbone. Cominciò il negus Hailé Selassié, nel '59, indossando i panni dei colonialisti che aveva appena finito di combattere per annettersi, complice l'Onu, quella striscia di terra che vietava al suo impero millenario la confortevole vista del mare. Il vecchio despota non si era accorto che proprio attorno al nucleo del colonialismo italiano si erano cristallizzati significati e volontà di una nuova nazione. Fu l'inizio di una lunga battaglia per l'indipendenza condotta quasi a mani nude, con un patriottismo tutto impeti e vibrazioni che si esaltava nella solitudine ideologica e nell'indifferenza del mondo. Il «negus rosso», Menghistu, ereditò quella guerra inserendola nel suo marxismo da caserma. La sconfitta gli costò il potere. Il nuovo uomo forte, Meles Zenawi, sembrava diverso: anche lui è un ex ribelle, un tigrino che la lottato contro il Derg. Nel maggio del '91 fu una brigata meccanizzata di solerti guerriglieri eritrei che lo scortò nella sua marcia su Addis Abeba. Ad avvicinarlo al suo collega di Asmara, Afeworki, c'era anche il più solido dei legami I geopolitici, un nemico comuI ne: il Sudan, che nella crociata islamica verso Sud scruta, con la voluttà di un serpente, i suoi vicini cristiani. Per i dirigenti di Asmara, laici fino all'ateismo, le insidie sudanesi sono doppiamente letali, perché la parte Nord del Paese è musulmana e da sempre recalcitrante contro il potere dello Hamassien. E' stata breve la stagione dell'alleanza, benedetta dall'interessata complicità degli Stati Uniti. Poi tutto è ricominciato in modo fortuito, come la maggior parte delle grandi calamità, a partire da un fatto apparentemente banale. L'Eritrea nel novembre scorso ha sostituito il Birr, la moneta etiopica che aveva continuato a utilizzare, con una propria divisa, il Nakfa, e imponendo ai vicini un tasso di cambio alla pari. E' stato un nazionalistico sassolino che ha fatto precipitare una frana. L'Eritrea infatti importa tutti i propri viveri dall'Etiopia e vi esporta soltanto il sale. Subito si sono bloccati gli scambi tra i due Paesi perché i commercianti etiopici venivano pagati con carta senza valore; la quotazione del tef, il cereale base in Etiopia, è caduta; migliaia di lavoratori etiopici sono tornati a casa perché nessuno voleva cambiare i Nakfa con cui venivano pagati. A Addis Abeba molti hanno ricominciato a pensare che erano migliori i tempi in cui la bandiera etiopica sventolava sul porto di Massaua, che invano hanno tentato di sostituire in questi anni con Gibuti, Berbera e addiritura Mombasa in Kenya. Sui nuovi Birr che la Banca centrale etiopica ha stampato per non essere travolta da quelli in circolazione in Eritrea e ora senza valore, non campeggia più «Ethiopia Tikdem», Etiopia soprattutto, motto del vecchio nazionalismo amharico. Ma forse qualcuno a Addis Abeba comincia a pensare che è stato uno sbaglio. Domenico Quirico icoj

Persone citate: Afeworki, Meles Zenawi