Hoboken, dal nulla al mito

Hoboken, dal nulla al mito Hoboken, dal nulla al mito «Frank ci ha portati oltre il fiume cantando» NEUL& CITTA' NATALE HOBOKEN dal nostro inviato Per la prima volta, da vent'anni, Pat Spaccavento non ha acceso il giradischi nel suo ristorante «Piccolo's». Perché, come spiega un cartello affisso dalla parrucchiera Jane nel suo negozio «L'arte del capello», «Il 15 maggio è il giorno in cui la musica è morta». E Joseph Lisa, proprietario di un locale chiamato «AH or nothing at ali», come il primo disco di Frank Sinatra, mostra orgoglioso la fotografia in cui la moglie Angelina bacia un'immagine del cantante e dice: «Lei è morta un mese fa, adesso è toccato a Frankie. C'è sempre lui nel mio destino. In quello di tutti, qui a Hoboken». Potrebbero chiamarla Sinatra City, questa cittadina nel Jersey, scaricata sulla riva dell'Hudson, messa lì a guardare le luci di Manhattan, dall'altra parte, tutte le sere della sua vita. Un cartello all'ingresso spiega che qui sono nate due cose: il baseball (nel 1846) e Sinatra (nel 1915). Un altro, più avanti, le attribuisce la fiera paternità anche della catena di sandwich Blimpie, sulla quale la storia chiude un occhio. Poi il baseball è andato a conquistare l'America e Sinatra pure. A Hoboken, c'è tornato per l'ultima volta nel 1984, accompagnato da Ronald Reagan e dallo sguardo perplesso di chi vede una vecchia foto e non si riconosce, benché le zie, che la custodiscono come un tesoro, trovino che non è cambiato. Oggi che Frankie se n'è andato, Hoboken si mette il completo da Sinatra City. Gli altoparlanti fuori dal municipio diffondono la sua musica e le note di «My way» rotolano giù per Washington Street fino alla lavanderia che si chiama, appunto, «My way». Davanti al palazzo del Comune siede, con occhi sbarrati, una dozzina di anziani capitanati da Ed Shirak, che per due volte cercò di entrarci da sindaco, basando la campagna elettorale sul progetto di costruire un museo Sinatra e, sconfitto, si è limitato a pubblicare a sue spese una monumentale biografia della Voce. Un isolato più a Sud, Rosie ha esposto al balcone un lenzuolo e ci ha scritto su «Ci mancherai, Frank». A ogni angolo c'è qualcuno con un aneddoto personale su Sinatra, solitamente di terza mano. Il venditore di hot dog: «L'ho incontrato una volta... a un suo concerto... lui sul palco, io in ventesima fila». La nipote della ex vicina di casa: «Mia nonna lo sentì cantare nel bagno... aveva appena diciotto anni, ma era già la Voce». La figlia di Leo Terlizzi del ristorante Leo's, tappezzato di fotografie di Frank Sinatra, neanche una parola, soltanto lacrime. Al numero civico 415 di Monroe Street, dove Sinatra nacque, c'è una stellona dorata sul marciapiede con microfono incastonato. All'alba ci hanno deposto una rosa, prima che arrivassero le orde della televisione a chiedere a tutti: «Le spiace che sia morto?». E allora, quelli a cui: «Certo che sì» non si sono più fatti vedere e hanno messo le rose in un bicchiere, in casa, di fianco a un album «Greatest Hits» con la ra¬ dio sintonizzata sul canale WQEW che trasmette solo Sinatra per tutto il giorno, senza altra Voce all'infuori di lui. C'era rimasto poco anche Frank Sinatra, in Monroe Street, territorio di emigranti italiani, poveri e rumorosi. Appena il padre Marty era stato assunto tra i pompieri, la madre Dolly aveva spostato il quartier generale della famiglia più su, al 703 di Park Avenue, che non è come quella di Manhattan, ma te la lascia immaginare, oltre il fiume, dietro la trincea dei grattacieli. Ti lascia pensare che forse non è impossibile arrivarci. Lui ci riuscì. Ed è per quello che Hoboken lo ama. Non per la Voce. Non per l'affetto reciproco: non si vedevano praticamente più, da quando lui era partito. Neppure per interesse: Hoboken non è Tupelo, che vive sul cadavere di Elvis, qui ti spacciano qualche ritratto, due tazze ed è tutto. Lo ama perché le ha tolto un'etichetta. A Manhattan hanno un modo preciso e spregiativo per definire quelli che vengono dal Jersey: li chiamano «bridge & tunnel», gente che deve attraversale un ponte o un tunnel per raggiungere l'isola più esclusiva del mondo. I guardiani delle discoteche li riconoscono a un miglio di distanza, i «bridge & tunnel» e, se la serata non è fiacca, li tengono fuori, perché sono tipi che rientrano troppo presto (avendo strada da fare) o troppo tardi (quando non ce la fanno) e comunque spendono troppo poco in abiti e consumazioni per essere all'altezza. Ma ci fu un'eccezione, venuta da Hoboken, uno che ogni sera incendiava i locali e prosciugava le riserve di ghiaccio al grido: «La cosa peggiore, nella vita, è una vodka tiepida». Fu lui a cancellare idealmente l'Holland Tunnel tra Hoboken e Lower Manhattan e fare di questa città un'accettabile appendice di New York, dove riparano professionisti di Wall Street che vogliono una tranquilla vita di famiglia, dove il mercato immobiliare sale ai ritmi folli che conosce sull'altra riva e dove l'im- magine del borgo di emigrati che fanno a cazzotti per strada e passano le serate al pub in canotta appartiene ormai alla oleografia. E le ragazze di Hoboken possono farsi corteggiare da qualcuno che attraversa il tunnel per loro senza cadere nella condiscendenza per la «Jersey girl» cantata da Bruce Springsteen («conosco un posto dove si balla gratis/vieni con me/sul lungofiume è perfetto/di sabato sera/non c'è niente che importi/quando ami una ragazza del Jersey»). La giovane Robin che sosta davanti al municipio con la bandiera americana a mezz'asta non ha un solo disco di Sinatra, preferisce Bon Jovi, ma sente di dovergli qualcosa. Probabilmente perché quando risponde: «Sono di Hoboken», dicono «Ah, come Sinatra» e non «Come i sandwich Blimpie» e nessuno le chiede quanto ci ha messo ad attraversare il tunnel. Hoboken sta diventando un altro quartiere di New York: ristoranti giapponesi, lavanderie cinesi, dei coreani, ogni tanto perfino qualche americano. Quando un pronipote di qualcuno di questi domanderà: «Ma chi era questo Sinatra?», il nonno paziente e memore risponderà: «L'uomo che ci ha portato oltre il fiume cantando». Gabriele Romagnoli Rose e una stella in Monroe Street via di italiani emigranti e rumorosi «The Voice». A sinistra da bambino, a destra nel giorno delle nozze con Nancy Barbato. Dalla donna, con cui rimase per 11 anni, Sinatra ebbe tre figli