QUELLE VOCI di Giuseppe Culicchia
QUELLE VOCI QUELLE VOCI RS QUELLti rTì unì rrprin - ICORDO come del .resto molti di voi, credo che fin dal primo Salone del Libro una «ridda incontrollata di voci», come usa dire, ipotizzava, ma che dico ipotizzava, dava per certo il trasferimento del Salone a Milano «a partire dalla seconda edizione». Secondo tali fonti - tutte più o meno autorevoli e in ogni caso informatissime - l'esordio torinese della manifestazione non sarebbe stato altro che un «test di collaudo» in vista del Salone vero e proprio, quello milanese, appunto. Ora, dato che la cosiddetta «kermesse» (esiste parola più orrenda? Probabilmente no, se si esclude «Dehbohrah», che però è un nome proprio) è giunta alla sua undicesima edizione, sono esattamente dieci anni che si dà per certo, di anno in anno, tale trasloco. Francamente, non se ne può più. Ve li immaginate, gli editori milanesi che tessono trame come nemmeno la Stasi da dieci anni a questa parte, gabbati ogni volta sul filo di lana da E VOCI Torino, l'eterna seconda (o terza, dopo la Napoli di Sassolino, o quarta dopo la Roma del marito della PalombeUi)? Io sì, me li immagino - trattandosi di editoria, nulla è impossibile -, seduti intorno a un tavolo a far di conto, in un'orgia di profitti e perdite, costi e ricavi: «Ué (forte accento milanese), ma vuoi méttere quàanto si rispàrmièrèbbe se ce lo facessimo noi qui, sto Salóne del mènga?». Una soluzione però ci sarebbe: diamoglielo, il Salone. Se lo organizzino loro dove meglio credono. Direttamente nei magazzini, in modo da eliminare la spesa per il trasporto dei libri da lì alla «kermesse». Oppure di fianco alla tipografia, tagliando anche i costi del trasporto fino ai magazzini. Personalmente, sono disposto ad andare a Milano in occasione del prossimo Salone del Libro, dovunque decidano di farlo. Basta che cessino le «voci». Grazie. Giuseppe Culicchia
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