OBIETTIVO RIBELLE

OBIETTIVO RIBELLE OBIETTIVO RIBELLE L'Italia di Tano D'Amico GLI ANNI RIBELLI 1968-1980 Tano D'Amico Introduzione di G. De Luna Editori Riuniti pp. 192 L. 15.000 ROMA INALMENTE anche un po' di immagini e non solo parole sugli «(Anni ribelli» come ha scelto di chiamarli Tano D'Amico, fotografo di strada e di narrazioni dei molti controluce su cui il sociale si è infranto, ha sanguinato, ha lottato: tutto (o quasi) inghiottito in una dozzina d'anni, tra la fine dei Sessanta e l'esordio degli Ottanta. Qui in Italia. Centocinquanta fotografie in bianco e nero: non solo i propri scatti, ma pure una scelta di quelli più amati. Gli ospedali psichiatrici visti da Berengo Gardin. Gli studenti del movimento di Adriano Mordenti. Le donno in piazza di Gabriella Mercadini. I lutti e lo spavento del terrorismo, immobilizzati da Mauro Pilone. Tano D'Amico è in viaggio, su ruote qualsiasi, da quando questa storia è cominciata. Viene da Filicudi. Approda a Milano per studiare, finisce a Roma per vivere. Oggi ha 55 anni, è appena arrivato da Cosenza, sta partendo per il Chiapas. Tecnicamente non ha quasi mai usato teleobiettivi perché, tecnicamente, è sempre stato molto vicino alle cose. Racconta: «Cominciò così. Arrivai a Roma nel '67. Avevo 24 anni e le cose ci nascevano attorno, anziché morire. Io le guardavo e insieme le vivevo. Mi appassionai allo sguardo degli altri. iii ff gCominciai a fotografarli» Tra le molte cose, nascevano pure i giornali. «Successe che per la testata del giornale di Potere operaio venne scelta una mia foto: un gruppo di operai sardi». E successe lo stesso quando uscì «Lotta continua» e poi «il manifesto». «Ho cominciato subito a stare molto in giro, di giorno e di notte, anche se non pensavo davvero che il mio fosse un lavoro vero e proprio e che ci avrei campato per tutta la vita». Lo dice come se ci fosse un po' di rimpianto. «Se c'è, riguarda solo l'intermittenza con cui ho vissuto le storie che ho seguito. Mi spiego. Ho fotografato le prime occupazioni di case ed ero un occupante in mezzo agli altri occupanti. Così le manifestazioni del '68, gli scioperi operai del '69. le lotte dei contadini al Sud. Si creavano rapporti, legami. E a un certo punto ti toccava partire, interrompere, seguire altro, ricominciare». C'era sempre un filo, però. «Il filo è quello che mi ha tenuto insieme». Dice Cartier-Bresson: fotografare significa mettere sulla stessa linea di mira la testa, l'occhio e il cuore. Cogliere l'attimo, meglio ancora rubarlo. Lei che ne pensa? «Penso che Cartier-Bresson sia stato grandissimo... Ma io fotografo gente a cui è già stato rubato tutto, non mi va di rubargli anche l'immagine». Lei apre e chiude il suo libro con fotografie di donne. E' un omaggio o cosa? «Un omaggio. Sono state il cuore, in tutti i sensi, degli anni perduti. E in fondo anche quelle che hanno inciso di più». Li ha chiamati «perduti», ma nel suo libro li chiama ((ribelli». E' nostalgia o disincanto? «Quegli anni sono stati tutte e due le cose. Oggi forse sembrano perduti perché sono diventati un buco nero. Non esiste film, romanzo, canzone, che abbia davvero raccontato quello che è successo». E' per questo che ha fatto il libro? «Sì, perché non andasse dispersa almeno una parte di quelle immagini che possono illuminare il buco nero. E perché quel buco nero, incidentalmente, è la mia vita. Così ho scelto, accanto alle immagini degli avvenimenti, molti primi piani, molti sguardi». Lei, nell'introduzione, parla di linguaggio «lieve e astratto» che i soggetti ritratti «possono ampbare enormemente». «Le immagini che amo sono quelle che ti aprono un nuovo punto di vista. Ci sono molti modi di fotografare i contadini siciliani, gli operai di Mirafiori, i detenuti sul tetto di Rebibbia, due studenti che dormono su un furgone, il corpo di un uomo appena ucciso. Lo puoi fare senza retorica, senza compiacimento, senza sensazionalismo. Cercando di fermare anche quello che non si vede, la vita sfocata intorno, il peso di un dolore, la leggerezza, l'orrore che ha realizzato quell'istante. Il visibile senza l'invisibile non è molto». Il mondo della comunicazione però sta andando da un'altra parte: tutto viene registrato e diffuso in tempo reale. C'è sempre meno spazio per l'invisibile, non crede? «E sempre meno spazio per la memoria, dato che siamo costantemente travolti dalle immagini. Pensi al crollo del Muro di Berlino. Non c'è una sola foto memorabile di quell'evento, eppure c'erano 8 mila fotografi in azione. Roland Barthes ha scritto: scorrono milioni di immagini, ma nessuna che faccia pensare, amare, ricordare». Di cosa è fatto il suo lavoro? «Curiosità, prima di tutto. Fatica, attenzione. E poi anche amore per le persone... Ci sono in giro migliaia di fotografi che trattano male le persone - da Lady D, all'ultimo bambino indio - scattano come imbracciando un mitragliatore, per catturare, non per raccontare». Com'è cambiato in questi anni il suo lavoro? «Il mio lavoro è rimasto più o meno lo stesso: pochi soldi, molti viaggi. Sono i giornali a essere cambiati: vengono fatti a supporto della pubbbcità e non il contrario. Annegano nel conformismo e la cosa terribile è che chi li fa, chi li dirige, stava dentro ai movimenti che volevano cambiare il mondo». Poi il mondo ha cambiato loro. «E' una vecchia storia, soprawiveremo». Pino Corrias Una foto di Tano D'Amico GLI ANNI RIBELLI 1968-1980 Tano D'Amico Introduzione di G. De Luna Editori Riuniti pp. 192 L. 15.000

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