«Bogart è stato il mio unico maestro»
«Bogart è stato il mio unico maestro» Non fu un grande attore, ma fornì la sua interpretazione migliore ne «L'uomo dal braccio d'oro» «Bogart è stato il mio unico maestro» Girò sessantatré film E! chiaro che la maggior gloria dello scomparso Francis Albert Sinatra risiede altrove, ma anche quella che riguarda il suo cinema non è una gloriuzza. Intanto quantitativamente: 63 film (e forse il calcolo è per difetto) in circa mezzo secolo, a partire da «Notti di Las Vegas» del '41 e per finire alle soglie della vecchiaia, sono una specie di record. Trattandosi di un altro divo di Hollywood, basterebbero e avanzerebbero. Tanto più che fra le numerose pellicole di semplice intrattenimento, legate soprattutto nel primo decennio alle sue esibizioni di cantante, spiccano titoli pressoché leggendari rimasti nella storia della settima arte: «Da qui all'eternità», <(L'uomo dal braccio d'oro», «Va' e uccidi», per nominarne solo alcuni. Si direbbe anzi che dalla sua filmografia emerge un mistero Sinatra. Fisicamente smilzo, fragile, nevrotico, in contrasto con la voce suadente e intonatissima che l'ha reso immortale, Frankie sembrava destinato a non sfondare sugli schermi di Holiywood, popolati all'epoca da figure di ben più consistente prestanza. E mai un giorno in una scuola di recitazione, mai imparato da nessun maestro. Tranne che fu notato fra gli assidui colleghi e aspiranti attori riuniti intorno a Humphrey Bogart nel triste periodo della sua malattia: per fargli compagnia, e anche per avere ruminazioni sul-loro mestiere. E quando contro il mito del Metodo l'interprete di «Il mi- stero del falco» tirò fuori la famosa frase «Io pratico il metodo Bogart», si può star certi che il nostro la riferì mentalmente a sé stesso preparandosi a teorizzare il «metodo Sinatra». Aveva, certo, le sue carte segrete da giocare: uno speciale sguardo sperduto negli occhi azzurri e un sorriso accattivante che provocava tenerezza nelle spettatrici. E se nelle prime apparizioni era apparso legnoso e spaventato (non dimentichiamo che veniva da Hoboken, un quartiere dove qualcuno ha detto: «La statua della Libertà mostra solo il sedere»), a vederlo zampettare volonterosamente accanto ad un ballerino della classe di Gene Kelly in alcuni musicals, tra i quali lo straordinario «Un giorno a New York» ('49), molti si chiesero chi gli aveva insegnato le regole della danza moderna. E come mai fosse diventato, a differenza dei cantanti impalati davanti al microfono, un comprimario buffonesco, spiritoso e scatenato. Tuttavia nel '53, quando si seppe che Fred Zinnemann stava cercando l'interprete del Soldato Maggio, da mettere vicino a campioni quali Burt Lancaster e Montgomery Clift in «Da qui all'eternità», l'autocan didatura di Sinatra fece sorridere. Era un brutto momento per lui, la voce sembrava compromessa, il matrimonio con Ava Gardner era in crisi. Durante la tournée in sottotono che fece allora in Italia il pubblico crudele lo accolse al grido «Dov'è Ava?», tranne a farsi conquistare dopo le prime canzoni e ammettere alla fine che comunque era sempre un grande. Ma che potesse trasformarsi in attore drammatico, impersonando quel soldatino destinato a morire in una scena commoventissima pareva davvero impossibile. E invece Zinnemann rischiò, Frank ce la mise tutta e il risultato fu un Oscar per il miglior attore non protagonista sul quale l'interessato riuscì a ri¬ costruire anche la carriera di cantante e risollevare la propria immagine trasferendola neU'Olimpo dello spettacolo. «La recitazione di Frank Sinatra è oro puro»: lo scrisse a proposito di «L'uomo dal braccio d'oro» ('55) la temutissima e incontentabile Pauline Kael. Aggiungendo che la prova dell'attore era «ritmica, tesa e istintiva, eppure magnificamente controllata e dominata da un'eccezionale presenza scenica». E riconoscendo magari che Pauline non si è entusiasmata in egual modo per altre interpretazioni di Frank, la cui operosità come quella di tutti i divi che fanno un film dopo l'altro rischiò l'altalena degli alti e bassi, più bassi che alti da un certo momento in poi, nessuno mise più in dubbio che Sinatra aveva corde al suo arco per interpretare qualsiasi personaggio. La verità è che il nostro, avvolto nel suo mistero, fu lui stesso un personaggio da film. Con le sue tormentate vicissitudini professionali e private, con le chiacchierate protezioni mafiose rispecchiate da Coppola nel «Padrino», con i suoi amori in vetrina dalla storia burrascosa con Ava al matrimonio con la giovanissima Mia Farrow che nell'autobiografia ne traccia il ritratto, confermando l'i¬ dea di un temperamento megalomane e contraddittorio. Generoso e sollecito con gli amici ospiti tanto da controllare personalmente la presenza dello spazzolino da denti nelle loro stanze, ma per niente disposto ad accettare una critica o a cambiare un programma. Galante e maschilista, strenuo custode della propria indipendenza e dispotico verso gli altri. Una specie di «padrino» anche lui; e in realtà un film televisivo intitolato «Sinatra» è già uscito nel '92 con la sua approvazione. Non resterà l'unico. Alessandra Levantesi Fred Zinnemann lo volle nel suo «Da qui all'eternità» con cui vinse l'Oscar da non protagonista Generoso ma anche dispotico con gli amici, fu un «padrino» che non ammetteva critiche Frank Sinatra con Montgomery Clift (a sinistra) e Burt Lancaster nel film «Da qui all'eternità» e accanto con Gina Lollobrigida in «Sacro e profano»
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