Se un prete scrive a un monsignore

Se un prete scrive a un monsignore Esce «Lettere ai Romani» di Piero Ferrerò Se un prete scrive a un monsignore H abent sua fata libelli», dice il proverbio latino: i libri hanno il loro destino. E il fatum del libro di Piero Ferrerò, Lettere ai Romani (Garzanti) in libreria da oggi è davvero bizzarro. Questo romanzo epistolare, ambientato negli Anni 50, ai tempi della Chiesa trionfante (in senso politico), fra un canonico spedito a Susa a rimettersi in salute e un monsignore romano, era un capriccio, un dispetto al mondo dell'editoria che Piero Ferrerò si era voluto concedere. Sessantatré anni, drammaturgo allo Stabile di Torino, librettista per compositori contemporanei, traduttore dal francese (da Molière a Cocteau), Ferrerò è di quei personaggi che fertilizzano la cultura torinese con le sue parole sempre provocatorie, affilate come il suo volto da ligneo santo medievale. Deluso da un primo libro non baciato dal successo editoriale, il secondo Ferrerò ha deciso di pubblicarselo da sé: «Giusto cento copie, da regalare agli amici - racconta -. Non mi è neppure costato molto. Pubblicato dall'editore "Par delicatesse", inesistente ovviamente: fa parte del motto di Rimbaud "Par delicatesse j'ai perdu ma vie"». Il volume è finito in mano a lettori amici: Guido Ceronetti, Gianni Vattimo. «Vattimo lo ha segnalato sull'Espresso come lettura per l'estate. Nel volgere di una settimana il libro era diventato un caso. Tuttolibri mi ha intervistato. Il giorno dopo tre editori si facevano avanti per pubblicarlo», ricorda Ferrerò. Lettere ai Romani, titolo paolinò, esce così ora da Garzanti e si apre con uno scambio epistolare fra don Sebastiano Conocchia, che accompagna per l'ultimo viaggio la salina di un confratello a Susa, e il romano monsignor Serafino Maria Dottori. L'argomento di partenza è la donna con cui lo scomparso da Piero Ferrerò (fot o Mario Monge) anni conviveva more uxorio, con grande scandalo del mondo ecclesiastico: «Un monsignorone - spiega Ferrerò - di quei preti trafficoni romani, un grande elettore: di quelli che fanno i direttori delle banche, nominano i presidenti della centrale del latte, con le mani in pasta dappertutto. Però anche teologo, studioso. L'ho conosciuto veramente io un tipo così, in quegli anni». Un libro sul matrimonio dei preti? «Neanche per sogno, anche se quel fatto della convivenza, pur non essendo al centro del romanzo, è un elemento scatenante. Perché a Susa don Conocchia subisce l'improvvisa aggressione di una malattia che gli fa scoprire un mondo di semplicità, di forza, di sentimenti elementari che la sua dottrina e il suo sapere non gli spiegano». Conocchia è in seminario, malato: «E in questo mondo di preti mediocri meschini, vandeani, la vita gli si rivela in forme immediate che sono i discorsi con i reietti, gli emarginati di provincia. Gente segnata a dito: quella è una puttana, quello è un ladro. Poi c'è la scoperta del mondo della natura. Lo sconvolge scoprire quanto è bello il cielo, le erbe, i profumi, le nubi che passano nel cielo». Un mondo, quello della provincia montanara piemontese, che Ferrerò conosce bene per esserci cresciuto: «Non solo, ma sono venuto su frequentando i preti del seminario. Lì ho trovato dei nutrimenti inattesi, avevo a disposizione una grande biblioteca. Certo erano preti conservatori dal punto di vista della tradizione e della politica. A14 anni ero nell'Azione cattolica di Gedda. Poi crescendo ho cambiato molte idee». , Ma ora quel mondo ritorna, magari con un po' di rimpianto. Sergio Trombetta Piero Ferrerò (foto Mario Monge)

Luoghi citati: Gedda, Susa, Torino