Una moschea a Torino la Mole del Duemila

Una moschea a Torino la Mole del Duemila VOCAZIONE PI UNA CITTA Una moschea a Torino la Mole del Duemila SI rincorrono, in queste settimane, segni e interventi discordanti sulla identità di Torino e sul suo destino: città europea o periferia italica, città sacra o circolo di sette, comunità multietnica o società allergica a marginali di ogni tipo. Cercherò di suggerire alla riflessione comune parametri di giudizio che permettano una comparazione ragionata con il destino di altre città italiane. Un corpo sociale muta lentamente, né una città è più che la propria storia. Come hanno mostrato Deonna, Halbwachs, Nora, le pratiche e i simboli che identificano una collettività si modificano con ritmo secolare, talvolta millenario. Occorre perciò cominciare a riconoscere che Torino, quanto a luoghi simbolici dell'identità collettiva, è una città recente. Nessun simbolo neanche lo stemma - che la identifichi con le proprie libertà medievali, con i propri monumenti comunali siano essi profani come Bologna (le torri) oppure sacri come Milano (la Madunina). Neppure il dominio ducale rinascimentale ha identificato la città, come Ferrara o Urbino o Mantova. Tantomeno ha Torino la libertà di scegliere tra le proprie radici comunali e la propria grandezza rinascimentale come Parma. Torino è, non per voca zione, ma per traslazione, capi tale tardiva di un ducato, quando lo splendore di tutte le altre città italiane è da tempo al culmine, o al tramonto. Torino arriva a essere capitale di Stato, senza vera memoria simbolica né monumentale di Comune. Si sviluppa nel Seicento (come in proporzione solo Roma ha conosciuto) e nel Settecento, tanto che la sua atmosfera d'insieme rimane, come tutti riconoscono, barocca. Questo limite di città senza passato remoto, è anche la sua chance, perché essa diviene facilmente moderna e progetta e pensa da capitale di Stato, finché (rapidamente per l'epoca moderna) lo diviene davvero con l'Unità italiana. Nessun'altra città italiana ha conosciuto in meno di tre secoli un'ascesa così rapida. Ma questa vigorosa ascesa politico-militare è stata, ed è oggi, la sua profonda debolezza. Persa la capitale, Torino non ha trovato niente dietro di sé come patrimonio simbolico di Comune, quale tornava ad essere ed ò oggi, tanto che, in quegli stessi decenni di fine Ottocento, finirà per scegliere per proprio stemma proprio il monumento più recente e senza storia, quella «Mole antonelliana» che era in realtà nata come tempio della comunità ebraica (ritornerò su questo punto). Pensare da capitale, vivere da provincia. Torino certo ha continuato a fornire allo Stato le proprie élites militari, burocratiche e politiche, con un transfert di funzioni che ha lasciato nelle generazioni quella piega di meditata malinconia e di mguaribile distanza («tu, mia città, mi hai insegnato ad esserti lontano per esserti fedele»), che è il mood profondo della nostra città. E con tratti tipici: quella nobiltà costretta - come nella Francia di Versailles - a inurbarsi vicina alla Corte, lasciò - come in Francia - a malincuore i propri feudi (la riserva profonda della nostra identità: Langhe, Roero, Marchesato di Saluzzo, ecc.), e ha per poche generazioni abitato i propri palazzi simbolo della città. Come mi faceva notare con sobrietà un illustre torinese di antica nobiltà, sono pochissime oggi le famiglie nobiliari che, non estinte, posseggano ancora il loro palazzo urbano: servendo con lealtà e sacrificio la monarchia e lo Stato nelle sue guerre in cent'anni cruenti: 1848-1945, la nobiltà torinese è più che decimata. Essa, più di ogni altro ceto, ha pagato al mito di Torino-capitale: e oggi fa malinconia, più che in altre città italiane, vedere quei palazzi stimalisdqvcn(clcwrdbmpuu i a a a i e n , e o o ni a, o gi e zi sede di assicurazioni o di altre attività lucrative. Pochissime dimore nobiliari urbane hanno avuto un «reinvestimento simbolico» divenendo pubbbci musei, sedi di studi, luoghi nuovamente del gratuito, come gratuito fu quel servizio e quel dispendio di vite. E' inevitabile dunque che, come i propri nobili, anche i torinesi di più recente intubazione (lo siamo caiasi tutti dalle nostre campagne) sognino un ritorno alle proprie terre, vigne, cascine, casali, ciabot. La città si svuota il weekend, perché remoto è il cuore e i ricordi e i desideri, verso radici più sicure. Una città di immigrati. Sembra paradossale, ma è storicamente naturale, che, su queste premesse, Torino sia soprattutto una «città vissuta» da immigrati. Una città con storia recente, con uno stemma ottocentesco, con élites trasferite o estùite, è una città che ha ridato spazio e ruolo a immigrati senza chiedere loro eccessivi tributi a un antichissimo e troppo oneroso passato. Ma questa è oggi la condizione vitale delle metropoli europee: città come Parigi, Londra, Amburgo, città di forte immigrazione, cittàarlecchino, sono variopinte, vivide, ricche di dialogo e di iniziativa. Torino, fedele alla sua recente modernità, può dunque ritrasformare in «vantaggio europeo» quella che è la sua marginalità italiana. Un gesto per Tonno. Torino infatti perde sempre più terreno rispetto al contesto italiano: non sgrano il doloroso rosario delle occasioni perdute; basti ricordare che, oggettivamente, Torino non esprime più, da qualche tempo, élites di governo, seppure ancora - e con efficacia e prestigio - élites di servizio e di controllo delle istituzioni della statualità. E allora, se la storia insegna qualcosa o lo rammemora, si faccia almeno un gesto, uno scatto verso l'Europa. Come la Mole Antonelliana divenne, dall'incompiuto segno di una comunità importante ma minoritaria, il simbolo stesso del Comune e dell'identità torinese, dopo la perdita della capitale, così oggi il Comune rinnovi, con profetica libertà, quel gesto. Le nostre comunità immigrate sono numerose e non abitano solo più le «barriere» (come fu della prima immigrazione interna dal Veneto e dal Sud del Paese), bensì il centro stesso della città (San Salvario). Ma esse sono senza riferimenti simbolici, senza luoghi collettivi di incontro, di scambio, di dignità riconosciuta. Ebbene il Comune promuova la nuova Mole Antonelliana della Torino europea. Trasformi il lembo vergognoso della discordia (una città senza metrò, ma con tre stadi dei quali uno nuovissimo, e che se ne vede ora piovere un quarto) in una bandiera di speranza: si dia lo stadio Comunale alla comunità islamica - la più numerosa a Torino e plurinazionale, da Tunisia e Marocco ai Paesi mediorientali -, si lanci un concorso internazionale di idee per elevare la più ardita moschea dell'Occidente europeo, il più vivace «Institut du Monde Arabe» con quello di Parigi, si chiedano a Bruxelles ai Paesi del «crescente» e agli Emirati il necessario contributo per trasformare uno stadio obsoleto e mutile in un monumento vivente alla concordia mediterranea di culture e religioni (è chiaro poi che pari processo di localizzazione simbolica si dovrà estendere alle altre comunità extra-europee). Torino troverebbe così la sua Mole AntoneUiana del Duemila; come il tempio di una comunità ha sorretto il nostro orphelinat simbolico del Novecento, così un nuovo tempio di cultura e di dialogo sorregga il nostro passare dall Italia pallonara all'Europa delle civiltà. Carlo Ossola pia |

Persone citate: Carlo Ossola, Deonna