SCRITTORI d'ITALIA dov'è il bestseller di Primo Levi

SCRITTORI d'ITALIA dov'è il bestseller SCRITTORI d'ITALIA dov'è il bestseller DICE Franco CordeUi sulfureo: «Se fossi Angelo Guglielmi direi "peccato che Tabucchi e Baricco non scrivano un libro l'anno, avremmo risolto il problema degli italiani in testa alla classifica". Se fossi Camon direi: "Peccato che Primo Levi non sia vivo", avendo dato per scontato che è il più grande scrittore del dopoguerra, "supererebbe addirittura Baricco e Tabucchi". Se fossi CordeUi risponderei: andare in classifica rischia di strangolare la letteratura, non andarci deve essere vissuto come un premio, un segno di liberazione». E «ci sono riusciti», gli scrittori italiani. Desaparecidos nel loro Paese. Cesare De Michelis stinge l'amarezza nell'ironia, lui che con la Marsilio è stato in questi anni tra gli editori che con più passione hanno lavorato sulla narrativa di casa, l'occhio non solo agli esordi (la Tamaro scrittrice è nata a Venezia). Per nulla pentito perché «in Italia la narrativa c'è, ci dice chi siamo e lo dice abbastanza bene. Purtroppo è a noi lettori che non importa sapere chi siamo». E le complesse ragioni legate a questo «rifiuto» De Michelis le riconduce alla scarsa identità nazionale. «La narrativa è il luogo in cui una comunità si specchia, gli italiani invece si specchiano nell'altro da sé, abbiamo addirittura un ministro che propone di sostituire Dante con Shakespeare». Le classifiche confermano: da settimane nessun italiano compare tra i top ten, le ultime apparizioni un po' consistenti risalgono all'inizio dell'anno con Benni, De Carlo e pochi altri. Ma se, scarsissimi letto' ri, gli italiani privilegiano (a parte alcuni fenomeni nazionali ormai storici) chi arriva da fuori già impacchettato come bestseller, una qualche responsabilità non sarà anche degli editori? Il più grande, Mario Spagnol, pubblica in Longanesi in larga parte romanzi stranieri (sta per varare Ritorno a Colà Moun tain, romanzone americano dello sconosciuto Charles Frazier impropriamente paragonato a Via col vento) lasciandosi uno spazio picco lo e appartato per i pur molto amati Morazzoni, Ottieri, ecc. «Inevitabil mente. La Longanesi ha ricominciato a lavorare solo 18 anni fa e nel catalogo non c'era nulla. Non ave vamo molti numeri per giocarci gli italiani. Ma è vero, pur essendo aperti a tutti e due i campi, non stiamo troppo dietro agli italiani, un po' noiosi. Quanto agli autori di intrattenimento che con professionalità ogni anno producano un libro, in Italia non ne abbiamo quasi mai avuti». Andando come suo co stume controcorrente, Spagnol avverte che però questi scrittori cominciano a comparire: vedi Buticchi, un esordiente che con le avventure bellico-storiche della Pietra della luna ha venduto oltre 140 mila copie e il secondo Menorah è già sulle 30 mila. «E a livello alto quest'anno Giuseppe Conte ha scritto II ragazzo che parla col sole, un romanzo perfetto. Altro che non saper costruire una trama avvincente». Ma il critico Alfonso Berardinelh non sembra coltivare le stesse speranze. «Baricco fu molto realistico quando disse che bisognava infischiarsene della letteratura italiana. Purtroppo la nostra narrativa non riesce a trovare la formula stilistica capace di far sentire la realtà quotidiana in modo attraente, c'è la fantasia delle cose piccole ma non la vera immaginazione. Una controprova potrebbero essere i cosiddetti cannibali, portatori di una subcultura anche molto estesa, dove l'iperrealismo è una realtà inventata. Insomma, si produce in letteratura qualcosa di simile al cinema, storie fragili e autoreferenzialità allarmante. Ma almeno il cinema ha la risorsa del comico che gli garantisce un suo tradizionale pubblico». C'è qualche responsabilità della critica, in questa crescita incompiuta della cultura italiana, così tanto debitrice, da almeno 50 anni, dell'America? «Certo, la critica marxista non fu specialmente interessata alla narrativa, e quando ci si provava non le piacevano il Gattopardo e neanche la Morante. Ma il guaio di fondo va cercato nella nostra storia. Episodi pohtico-culturaU così poco edificanti come il Risorgimento e il fascismo lasciano profonde tracce. Si tratta, quindi, non di talenti ma di ambiente. Bisogna emigrare». Voce totalmente discorde quella di Gabriella d'Ina della Feltrinelli che, su 70 titoli nuovi l'anno, ne pubblica una dozzina di italiani e ha da Tabucchi alla Santacroce (in uscita con il nuovo romanzo, visionario, Luminal), da Benni a Piersanti, a Voltolini, uno spettro ampio su una narrativa «che ha molta forza. Certo l'autore italiano ha bisogno di una lunga gestazione, e di essere sostenuto. So che la nostra linea editoriale in buon equilibrio generale è piuttosto sbilanciata nei confronti degli italiani. E qualche volta la strada è particolarmente (ufficile, come quando un libro di eccezionale tenuta come II talento di Cesare De Marchi riesce a vendere in sei mesi meno di 5 mila copie. Ma la nostra tenacia pagherà». Sbagliato drammatizzare un momento di minore visibilità, si rammarica Vittorio Bo al vertice dell'Einaudi, «d'altronde nel nostro Paese il rapporto di mercato tra libri italiani e stranieri è di 1 a 3». Non molto diverso che altrove in Europa, eccezion fatta per la Francia dove questo rapporto è rovesciato per «l'impermeabilità dei francesi alla cultura d'importazione angloamericana». (Non solo: nell'elenco dei 101 campioni europei stilato questa settimana dal Nouvel Observateur l'unico italiano a figurare è Eco...). Ma non si sente colpevole Bo e dà cifre: «Nel '95 abbiamo pubblicato 16 italiani contro 20 stranieri, 15 contro 23 nel '96, 16 contro 25 nel '97. Certo compito dell'editore è segnalare in modo se si può ancora più forte ai lettori gli autori su cui fermarsi. Ma la questione è altra, semmai di antropologia culturale e va riportata alla scuola che deve aprirsi, "far leggere" e non solo di narrativa, e c'è da affrontare il problema della divulgazione scientifica dove abbiamo molto da imparare dagli anglosassoni. La scommessa grossa del 2000 è proprio in questa formazione culturale». In via Biancamano comunque l'ottimismo è lecito. Non confondiamo - aggiungono Cesari e Repetti, i due responsabili di Stile Libero - la vitalità di una letteratura con la presenza nella parte alta della classifica. La debolezza della nostra narrativa sta soprattutto nella fascia media di buona produzione, ma il fatto che in nicchie anche consistenti di pubblico si leggano be¬ nissimo narratori tendenzialmente «popolari» come Lucarelli o Camilleri, o narratori sulfurei che intercettano il mutamento come Nove o dell'intelligenza di De Luca spinge a continuare nella sfida». Massimo Onofri, critico di prima linea, difende la nostra narrativa, e fa anche qualche nome talentoso «Pellegrini, Rondolino», mentre accusa, gentilmente, un po' tutti, gli editori che non saprebbero inventarsi un mercato, i lettori pochissimo abituati ad esplorare, l'italiano in generale con il suo pericoloso dna di poeta, i critici che per snobismo rifiutano chi ha successo (Tamaro, l'ultimo De Carlo, ma ci ricorda i Cassola, i Bassani). «Ma nonostante questa diffidenza non c'è Paese che abbia un dibattito così forte e dove lo scrittore sia più lodato». E con ragione, in molti casi, conclude Cordelli. «Non so prevederne la tenuta, ma contro un Baricco che mira al sublime, ci sono alcuni giovani, mettete Scarpa, Ammaniti, Nove, che in misura diversa hanno svecchiato il campo. Che a una letteratura gesticolata, esornativa, leziosa oppongono una letteratura rapida, essenziale». Che bisogno hanno costoro di andare in classifica? Mica questione di pudore. Impegnato nell'ennesima revisione del nuovo romanzo sulla fine del psi attraverso il personaggio di un famoso finanziere che l'Einaudi aspetta da mesi, Cordelli confessa un'altra inquietudine: «Ho paura». Sentimento oltremodo salutare anche per arrivare in zona bestseller. Mirella Appiotti Da settimane assenti fin i top ten Spagnol: «I nostri autori sono un po' noiosi», Coixklli: «Andare in classifica rischia di strangolare la letteratura» p 0 A ho SCRITTORI d'ITALIA dov'è il bestseller

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