D'Azeglio, stilettate da gentiluomo

D'Azeglio, stilettate da gentiluomo la memoria. a 200 anni dalla nascita ritorna con l'epistolario e i quadri il difensore dell'unità d'Italia D'Azeglio, stilettate da gentiluomo «Carlo Alberto? Un geroglifico ambulante» wjk\ RECENTOOTTO lettere 111 dal 1° gennaio 1848 al 6 maggio 1849. Tante sono le I tappe di un biennio crucia■I 1 le, pieno zeppo di entusiasmi e delusioni, visto e vissuto da un interprete di prima fila come Massimo d'Azeglio. Per la storia grande: dall'insurrezione di Palermo alle conseguenze della «fatai Novara». Per quella dell'autore: dalla «brochure sugli Ebrei», ossia dalla pubblicazione dell'opuscolo Dell'emancipazione civile degli Israeliti, alla presidenza del Consiglio tenuta poi per più di tre anni, fino alle (dimissioni del novembre '52. Senza contare i passaggi intermedi anche più decisamente privati come il tentativo (mancato) di riprendere la convivenza con la seconda moglie Luisa Blondel da cui il quartogenito di «casa Zei», che non disdegna i giri di valzer, vive amichevolmente ma non sempre quietamente separato. Curate e annotate da Georges Virlogeux, professore italianisant dell'Università francese di Aix-en-Provence, le 308 lettere raccolte nel quarto dei 10 volumi previsti dall'intero epistolario azegliano edito dal Centro Studi Piemontesi saranno a giorni in libreria in una circostanza doppiamente anniversaria: i 200 anni dalla nascita di Massimo d'Azeglio e i 150 dallo Statuto di Carlo Alberto, il coscritto regale (anche lui del '98) a cui un suddito non sospetto com'è il rampollo più artiste della medioevale famiglia Taparelli riserva stilettate non poco aguzze: «Ma già è sempre stato un geroglifico ambulante». O ancor peggio, dopo l'abdicazione: «Lui è a Oporto e noi siamo nei guai». Massimo d'Azeglio è un impareg giabile scrittore di lettere, effusivo ed epigrafico insieme, numeroso e secco se occorre, fantasioso e preci so quando serve. Certo il personag gio che ne esce è versatile, spesso simpatico. Pittore non della dome nica (ottanta delle sue opere saran no esposte al castello di Costigliole d'Asti dal 17 maggio al 30 luglio a cura di Martina Corgnati e Cecilia Ghibaudi), scrittore di romanzi sto riti non mediocri con l'ancora leggi bile Ettore Fieramosca (1833) o il molto meno leggibile Niccolò de' Lapi (1841), pubblicista e autore di opuscoli e pamphlet che fecero rumore come Gli ultimi casi di Romagna (1846) o I lutti di Lombardia (1848), memorialista di razza con I miei ricordi (fermi al '46 e pubblicati postumi nel '67), uomo politico per necessità, cavaliere un po' donchisciottesco per vocazione, galantuomo honoris causa, la sua figura non s'incrina al controcanto della cognata Costanza, moglie del fratello Roberto, che in una lettera al figlio Emanuele scritta proprio nel dicembre del '48 (l'originale è in francese) giudica senza acrimonia: non sarà mai un uomo serio perché non sarà mai capace di fare se non ciò che lo diverte. Lui, l'interessato, lo conferma in mille modi, e quando viene eletto alla Camera dagli elettori del collegio di Strambino si costringe a fare U deputato, ma un po' imputa la sua inettitudine parlamentare agli intrighi dei mestatori: «Povera Italia! Che stracci, che stracci!», un po' chiama in causa il suo proprio carattere: «Io sono il polo opposto del tipo impiegato, e per me la legatura di lavoro fisso, a ora fissa, in luogo fisso, è un impossibile», un po' affida il suo moderatismo legalitario e antiretorico al carattere dei piemontesi che sanno opporre ai vezzi democratici e repubblicani (mah necessari perché solo assaggiando «i birbi e gli incapaci» la nazione potrà giungere a una politica «vera» e «ragionevole») le più solide barriere antivirali: «Il pubblico in Piemonte può attraversar questa prova con meno pericolo che altrove in Italia. Il nostro carattere è tutt'altro che leggero, tutt'altro che poetico, e non soffre a lungo la ciarlataneria di nessun genere». Il biennio vola rapido e incalzante nelle 444 pagine del volume. Si apre da Roma nel cuore di un'officina che combina la lealtà di un papa «ottimo», Pio IX, con la malafede prelatizia di un «governo canaglia pur sang», capace di suicidarsi «a poco a poco». Dalla capitale di uno Stato che «è una Babilonia» l'Azeglio segue la rivoluzione scoppiata a Palermo il 12 gennaio e scrivendo il 31 a Pietro Lanza di Scordia (qui a fianco pubblichiamo la lettera) e a Vito Beltrani, entrambi membri del Comitato generale palermitano, cerca di scongiurarne i fermenti separatisti e mette avanti le mani di un'alleanza che gli sembra confermarsi con la costituzione di Napoli concessa da Ferdinando II il 29 gennaio: «Ieri sera giunse in Roma la nuova della costituzione di Napoli. Non posso dirle l'allegrezza, le illuminazioni, le grida colle quali si è celebrata quella sospirata riunione d'un altro Stato italiano alla Lega, che forma tutta l'unità alla quale possiamo pretendere oggidì». In realtà l'adesione alla Lega doganale stipulata nel 1847 a Torino tra Regno di Sardegna, Granducato di Toscana e Stato Pontificio non è affatto automatica, anche se per l'osservatore non imparziale è un esercizio rassicurante separare la ganga popolare in cui alligna «l'idea siciliana» dall'oro zecchino degli «uomini iUuminati» che coltivano «l'idea italiana» nella costanza di una persuasione indefettibile: l'Atalia deve tendere, anche con sacrifici parziali a tutte le maniere d'unità, finché venga ad ottenere l'unità completa e assoluta». Così, quando dopo l'insurrezione viennese scoppia la guerra, e anche le truppe pontificie vi prendono parte sotto la guida del generale Giovanni Durando, il colonnello d'Azeglio segue il comandante di un'armata Brancaleone con la fiducia - come scrive a Luisa Blondel di poter «passare tra palla e palla». Di fatto come aiutante di campo si rende conto ben presto che nessun «entusiasmo generale» e nessuna «buona volontà» possono supplire «a tutto», meno ancora il carroccio che in un soprassalto di inventività applicata si è tirato al campo munito di un gonfalone con la scritta: «W Pio LX» da un lato e «Dio lo vuole» dall'altro. Del resto se l'impreparazione è favolosa, l'allocuzione del Papa la esalta e non basteranno le marce forzate o il blasone di una ferita rimediata vicino a Vicenza sul monte Berico a pareggiare il conto di un'impresa predestinata a fallire. Resta la lezione delle cose, quella che il nobile convalescente traccia a Teresa Targioni Tozzetti in una lettera del 29 giugno 1848 con consapevolezza amarognola ma collaudata: «L'Italia ha mancato di sapienza politica e di energia. Non temo perciò che la causa pericoli, ma anderà per le lunghe, e forse starà alla ventura generazione il compiere ciò che dalla nostra poteva esser compiuto». Se non fu buon profeta, si rese però protagonista di una rimonta geniale. Non è forse suo il detto che fatta l'Italia restavano comunque da fare gli italiani? Giovanni Tesio «Roma è una Babilonia» e Pio IX un «ottimo papa» ma circondato da un «governo canaglia "pur sang"» Nell'immagine grande Massimo D'Azeglio e a sinistra, un suo dipinto del 1838. «Bradamante atterra il Mago Atlante». Sopra, dall'alto, Pio IX e Carlo Alberto