Delfino: l'ombra di Tangentopoli di Paolo Colonnello

Delfino: l'ombra di Tangentopoli «Alghisi mi disse che Prandini rilevò una compagnia di assicurazioni pagandola con fondi neri» Delfino: l'ombra di Tangentopoli «Imprenditori bresciani facevano da prestanome» BRESCIA DAL NOSTRO INVIATO «Alghisi mi disse che quando i banditi andarono nella villa di Giuseppe Soffiantini per sequestrarlo, si fermarono a lungo prima di portarlo via. Una vera stranezza, forse cercavano libretti al portatore...». Venerdì 17 aprile. Nel carcere militare di Peschiera del Garda, il generale dei carabinieri Francesco Delfino risponde alle domande dei pm e del gip di Brescia. Non è ancora l'uomo disperato che cinque giorni dopo deciderà di sbattere la testa contro un muro. Parla a lungo il generale, fino a riempire un verbale di 250 pagine disseminato di mine e rivelazioni tutte da verificare. E smentisce soprattutto l'esistenza di un'amicizia di ferro tra i due ex soci, Giordano Alghisi e Giuseppe Soffiantini. Tanto che, rivela il generale, è lo stesso Alghisi a raccontargli retroscena, non sempre edificanti, dell'imprenditore sequestrato dai banditi sardi. Mettendo in luce, incalzato dai pm evidentemente già informati da Alghisi, anche un particolare inquietante: il fantasma di una tangentopoli bresciana dietro il sequestro Soffiantini. Chiedono i pm: che motivo aveva Giuseppe Soffiantini di aver paura di lei? «Non vedo di cosa possano aver paura i Soffiantini. Del loro passato so molto poco perché in fondo sono stato tenente a Verolanuova (il paese vicino a Manerbio) solo per un anno». Ma è un modo di schermirsi quello del generale. Perché alla domanda successiva, Delfino palle all'attacco. Alghisi, gli chiedono i pm, ha parlato dell'esistenza di libretti al portatore. Lei ne sa qualcosa? «Alghisi - risponde Delfino - mi disse che all'epoca c'era una convenzione tra gli impren ditori bresciani e alcuni rappresen tanti istituzionali per ricambiare i favori ricevuti dai politici...». Che tipo di convenzione? In pratica, spiega il generale sulla scorta dei racconti di Alghisi, gli imprenditori bresciani facevano da prestanome a questi «personaggi istituzionali», intestandosi dei libretti al portatore per svariati rniliardi, frutto delle tangenti accumulate dai politici. Ma Alghisi, insistono i pm, le ha riferito che lui stesso o Giuseppe Soffiantini erano intestatari dei libretti dell'ex ministro Prandini? «No, questo non me lo ha mai detto, potrei dedurlo ma non è affar mio. Però mi aveva raccontato che presso la segreteria di un importante ministro dell'epoca arrivavano tantissimi soldi e che il ministro li convertiva in libretti al portatore per non far risultare che fossero suoi...». Delfino spiega anche di aver saputo, sempre da Alghisi, che Prandini o qualche suo prestanome, «avevano rilevato una compagnia di assicurazioni pagandola in maggior parte con fondi neri...». Quindi U generale aggiunge: «Alghisi mi aveva anche riferito che secondo lui c'erano delle stranezze nelle modalità del sequestro Soffiantini, come la lunga permanenza dei banditi, quasi due ore, nella villa di Soffiantini, come se volessero trovare quei libretti...». Chi poteva aver informato i banditi sardi di questo particolare così segreto? Il generale insiste: lui del sequestro non si è mai occupato «e se avessi saputo qualcosa avrei informato il mio comando generale, non Alghisi o i Soffiantini». Il preteso intreccio tra una tangentopoli bresciana e il sequestro Soffiantini e tra questo e il miliardo preso da Delfino tramite Alghisi, potrebbe essere il terreno su cui la difesa del generale deciderà di giocare durante l'incidente probatorio fissato per mercoledì prossimo. Un'udienza alla quale il generale non sarà presente ma dove gli av- vocati Della Valle e Bruno daranno battaglia. I legali sostengono infatti che tutti i testi citati da Delfino hanno confermato in realtà la versione del loro cliente. In particolare sulla girandola di debiti («molto inferiori alle cifre pubblicate da alcuni giornali», sostiene Della Valle) che negli anni scorsi hanno travolto l'alto ufficiale dei carabinieri. E che lui stesso ha ammesso durante l'interrogatorio del 17 aprile: «Io ho cominciato a giocare al Lotto nel '93, e ho perso la testa. Ero arrivato a spendere tre-quattro milioni alla settimana, oltre 120 milioni all'anno». Cifre di tutto rispetto per un militare, anche se di grado elevato, che poteva contare su uno stipendio di non più di 4 milioni al mese. «Per questo - si è giustificato Delfino - avevo deciso di mettere in vendita la mia villa di Meina». Villa che secondo Delfino, sarebbe stato Alghisi a comprare, iniziando a versare una caparra in nero di 800 milioni. Versione alla quale i giudici non hanno creduto. Anche se un testimone citato dal generale, un altro ufficiale dei carabinieri che aveva prestato trenta milioni a Delfino, ha confermato che proprio Venerdì Santo, giorno in cui l'abitazione del generale venne perquisita, lo stesso gli disse che presto avrebbe ripianato i suoi debiti perché era finalmente riuscito a vendere la villa. Oggi il gip Roberto Spanò dovrebbe decidere, sulla base delle perizie mediche, se concedere o meno gli arresti domiciliari a Delfino. Paolo Colonnello Il generale dei carabinieri Francesco Delfino è stato interrogato a lungo in carcere a Peschiera dai giudici bresciani

Luoghi citati: Brescia, Manerbio, Meina, Peschiera Del Garda, Verolanuova