Dialoghi di luce e castità grafica
Dialoghi di luce e castità grafica A Ferrara trionfa la miniatura Dialoghi di luce e castità grafica Li FERRARA AREBBE curioso conoscere davvero i dati di afflusso alla mostra di Pissarro e i dati autentici, senza la gonfiatura dei deportati scolastici, della spettacolosa rassegna «Miniature Ferraresi tra Quattro e Cinquecento». Per capire anche i meandri del gusto costituzionalmente televisivo del pubblico delle mostre: capire insomma perché basti il nome di un impressionista, spesso modesto come Pissarro, a trascinare le folle, mentre sicuramente questo prodigioso tappeto istoriato d'invenzioni figurative senza confronti produca ancora il suo ingiustificato alone di diffidenza, come qualcosa di difficile da amare. Data la parsimonia di testi pittorici, per capire quel capitolo meraviglioso che Longhi definì dell'Officina Ferrarese, con quell'allusione lessicale ad un che di fervoroso, di ronzante ma anche di solida petrosità, è quasi imprescindibile, per la storia di quell'arte macilenta e rocciosa, rifarsi a questo tessuto connettivo, iUuminato e illuminante, della storia del gusto. Enluminures si dicono in francese e di translato da noi: perché un tempo si pensava «illuminassero» i testi sacri di immagini lucide di fede; forse l'etimologia viene invece dall'allume, che dà quel caratteristico brillare di mica ai colori tenerissimi di questa miracolosa dedizione miniata. Ed è meraviglioso, negli spazi predestinati della Sala dei Mesi, sotto gli affreschi cifrati e zodiacali di Cosmè Tura, Francesco del Cossa ed Ercole de' Roberti, inseguire questo percorso polifonico allacciato di echi e dialoghi a distanza, anche tra tavola e pergamena. Perché oggi si proli pende a pensare che certe pagine incantate e purissime di un Corale che sta a New York (quel fiorito serpentinato che conduce l'occhio sino alla soglia del porporino letto da puerpera di Sant'Elisabetta) possano recare le stigmate del grande Tura. Di lì una processione di nomi poco conosciuti ma grandissimi, che ruotano intorno alla quasi inamovibile Bibbia di Borso d'Este: Taddeo Crivelli, Guglielmo Girardi, Franco de' Russi, Giorgio d'Alemagna e l'aulico Vendramin, che riprendendo i modi di Belbello da Pavia è capace di comporre incantevoli Perugino da tasca. Una teoria di maestri non minori, che come un lieto festone conducono in processione l'eleganza fiorita del tardogotico fino alle soglie del Rinascimento umanistico, della «maniera moderna» che Vasari avrebbe poi esaltato. Coltissima e longeva corte degli Este, prima di Lionello e poi di Borso, che si avvale di artisti che arrivano già impregnati di Mantegna, di Donatello, di Piero della Francesca. Messali, Libri delle Ore, Corali, Codici, San Girolami piantati nei loro studioli come fiori in un vasetto, lepri e farfalle intrappolate tra un'iniziale e l'altra, grottesche e racemi che si sviluppano intorno ai capilettera come edere ribelli, una mano cortese e spiccata come in Beato Angelico scende dal cielo a trasmettere a Eleonora i «modi di regere» lo Stato, mentre i diavoli tormentano Davide nel suo sacello, ridotto ad un'arpa da pizzicare, San Giovanni s'industria col suo astrolabio quasi fosse un giocattolo e Eva esce umiliata dalla costola di Adamo, come una signora che non è potuta ancora passare dal parrucchiere. E poi dicono, l'eleganza degli stilisti! Davide suona il salterio e Dio Padre esce da un suo finestrino come un portiere curioso: un mondo vicinissimo e candido, di una castità grafica inarrivabile, eppure staccato e siderale come l'immateriale congedo di un canto gregoriano. Marco Vallerà La miniatura a Ferrara. Palazzo Schifanoia. Orario 9,30-19
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