Il timoniere del ferry per l'Europa

Il timoniere del ferry per l'Europa L'appuntamento coi partner è solo rinviato: viaggio nel tormentato rapporto tra Londra e PUe Il timoniere del ferry per l'Europa Blair, lapiena integrazione nel secondo mandato LONDRA DAL NOSTRO INVIATO GLI inglesi sono in genere dei buoni arbitri», ironizza Philip Stephens, buttando uno sguardo distratto fuori dalla finestra, sulla porzione del lento vecchio fiume compresa tra il London Bridge e il Southwark Bridge, non lontano dal punto in cui fl Marlow di Joseph Conrad affabulava gli amici in barca con la storia di «Cuore di tenebra». Stephens ha scritto due anni fa un libro di successo, Polities and the Pound (La politica e la sterlina), e adesso, dal suo ufficio al terzo piano del prestigioso Financial Times, parla tutti i giorni con le grandi stelle del New Labour, da Tony Blair a Gordon Brown, da Peter Mandelson a Robin Cook. Il «buon arbitro», in questo caso, è Blair, che presiede oggi a Bruxelles la riunione dei governi europei nella quale verrà sancita ufficialmente la nascita dell'Euro: un presidente britannico per una cerimonia dalla quale la Gran Bretagna si è autoesclusa. Uno strano scherzo della storia. In un altro punto della città, in un angolo del salone del Garrick, lo storico club al quale appartennero Charles Dickens e Anthony Trollope, a fianco dei panciuti galeoni d'argento e sotto una parete di quadri vittoriani, un uomo enorme e stanco starà oggi sfondando la solita poltrona di pelle rossa, come tutti i pomeriggi, un po' sonnecchiando e un po' riflettendo sul possibile disastro di un'unione monetaria che «non sarà in grado di proteggere gli strati più deboli della classe ope raia,europea». E' Peter Jay, reso famoso dalla Bbc e poi approdato alla politica e alla diplomazia, quando il suocero, James Callaghan, divenne primo ministro. Per gli uomini dell'Old Labour, il fatto che oggi Blair a Bruxelles sia solo arbitro non costituisce una garanzia sufficiente: si sa che il Prime Minister e tutti i suoi sono filo-europei e che intendono rag giungere l'Emù con la seconda ondata, probabilmente nel 2002, Disastro solo rinviato. Non molto lontano, in una linda e asettica palazzina ombreggiata da ippocastani, al 32 di Smith Square, dove ha sede il quartier generale dei conservatori, un quarantenne piccolo tondo e mite di nome Charles Hendry continuerà anche oggi a raccogliere cifre e argomenti per con sentire al segretario del partito, William Hague, di essere pronto all'appuntamento con la storia, quando, all'annunciato referendum, il popolo britannico sarà chiamato a decidere se unirsi all'Euro oppure no. E Hague, a nome della netta maggioranza dei tories, accuserà apertamente i nuovi padroni del Labour Party di essere pronti a svendere alla burocrazia europea la «sovranità britannica» e la «democrazia di Westminster». Tory prò Maastricht Mentre a pochi passi, nel suo ufficio alla Camera dei Comuni, il suonatore di sassofono mancato e rispettatissimo Cancelliere dello Scacchiere nell'ultimo governo conservatore, Kenneth Clarke, criticherà ancora una volta Blair per «non aver avuto il coraggio» di forzare i tempi dell'ingresso nell'Euro, sciupando «l'occasione storica offertagli dalla sua popolarità», e sfogherà con l'ennesimo giornalista la sua amarezza: «La stampa di sinistra è tutta pro-Europa e quella conservatrice tutta contro. La mia posizione, di conservatore europeista, sembra non esistere». E' una storia davvero compii cata e tormentata quella del rapporto tra la Gran Bretagna e l'Unione Europea, da quando il conservatore Winston Churchill in vocò a Zurigo nel '46 «gli Stati Uniti d'Europa» a quando la conservatrice Margaret Thatcher, a Bruges nell'88, tuonò che non avrebbe mai permesso all'Europa di «fissare le frontiere britan niche» ; da quando i governi labo risti di Clement Attlee e Hugh Gaitskell, negli Anni '50 e primi '60, sostenevano che unirsi all'Europa sarebbe stato come «voltare la schiena a mille anni di storia» all'oggi pragmaticamente ma convintamente filo-europeo di Blair e di Brown. Ripetuti scambi delle parti attraverso i decenni, spesso suggeriti da calcoli di politica interna, ma, almeno fino all'epoca Thatcher, dominati da una costante di fondo: i conservatori tendenzialmente più filo-europei e i laboristi prevalentemente anti. Fu con la battaglia della lady di ferro sulla British Budgetary Question a proposito delle compensazioni agricole (chiamata da molti la Bloody British Question, il maledetto problema inglese) e la nonadesione all'Exchange Mechanism Rate nell'81, che si sono sostanzialmente rovesciate le parti e poi fissate come sono oggi: i conservatori su una posizione euro-scettica almeno per i due terzi e i laboristi pro-Europa in nettissima maggioranza. Ma, se si scava dentro queste contraddizioni, si può scoprire che lo stato d'animo britannico rispetto all'Europa è più omogeneo, e anche meno scontato, di quanto appaia. Nello stesso tempo, sia pure con la moderazione di tutti i «se» necessariamente legati a ogni previsione sul futuro, si profila un percorso piuttosto preciso per l'evoluzione del rapporto tra l'isola e il continente. I vecchi laboristi Si può parlare con laboristi vecchi e nuovi, con conservatori filoeuropei o euroscettici, con giornalisti o intellettuali dei vari «think-tank», ma non c'è alcun dubbio sul disegno, peraltro non molto segreto, del governo Blair sull'Euro. La «top priority» del primo ministro è dichiaratamente ottenere un secondo mandato e diventare il primo laborista della storia a completare due termini: su questo non c'è alcun mistero. Di conseguenza, Blair, sapendo che la questione europea è molto delicata, ha escluso di affrontarla «con questo Parlamento». «Prepare now to decide later» (prepararsi ora per decidere dopo), è lo slogan che, dal suo ufficio di Whitehall 72, proprio accanto a Downing Street, lancia Peter Mandelson, un uomo alto e affilato che detta e conta le parole, considerato l'eminenza grigia del governo Blair. «A differenza dei conservatori - spiega allungandosi su un divano - al momento giusto noi saremo pronti e soprattutto saremo uniti. Ma non prima della prossima legislatura - aggiunge - perché non vogliamo che questo Parlamento sia dominato da sospetti e voci». Blair, che festeggia oggi il primo anniversario di governo, pensa di riuscire a vincere con una nuova slavina le prossime elezioni, che medita di anticipare di un anno, al 2001. Durante la campagna elettorale dirà: «Votate per me senza preoccuparvi del problema europeo, perché in seguito ci sarà un Ubero referendum e sarete voi elettori a decidere». Sulla spinta della rielezione, ritiene in questo modo di poter vincere il referendum con una buona percentuale. E nel 2002 anche la Gran Bretagna avrebbe l'Euro. I conservatori, naturalmente, si opporranno a questo disegno. Si tratta, innanzitutto, di impedire a Blair di sgonfiare politicamente la questione europea e trasformare già le prossime elezioni politiche in un referendum contro la svendita della sovranità nazionale: «Bloccate quest'uomo, vuole farvi governare dall'Europa». I tories di oggi venerano la Thatcher perché «ha espulso il socialismo dall'isola e pensano che l'Unione Europea ce lo riporti», spiega l'ascoltato commentatore di The Times Anatole Kaletsky. E, per bloccare Blair, riutilizzeranno anche ogni freccia della retorica tradizionale sulle differenze storiche tra Europa e continente: «Noi, a differenza dei Paesi continentali, Churchill non siamo stati invasi da oltre 900 anni, quando arrivò sull'isola Guglielmo il Conquistatore nel 1066», elenca Hendry, che continua: «Abbiamo alle spalle centinaia di anni di democrazia ininterrotta e da noi nazionalismo non è un'idea negativa, mentre in Europa è associato a fascismo. Del resto, il nostro Paese è antico, mentre Germania e Italia, come stati-nazione, sono creazioni recenti. D'altra parte, mentre in Germania federalismo è un concetto positivo, per noi si tratta di un negativo trasferimento di poteri». Che attrazione possono ancora esercitare queste riflessioni storiche sugli inglesi di oggi? Anche i conservatori, quando si tolgono il vestito da comizi, ammettono: modesta. Lo stesso Hague ha studiato in Francia (come Blair) e Hendry ha cominciato la sua carriera di lavoro in Olanda. Perfino alla Camera dei Lord, tra caminetti gotici con il fuoco finto, barbe paradossali e vecchie ferraiuole con il fermo d'oro, si incontrano uomini come Lord David Puttnam, che, per conto di una compagnia australiana, sta cercando di costruire sale Multiplex in tutto il mondo. Lo smacco del Times Si dice che, se si tenesse oggi un referendum a bocce ferme, il «no» all'Euro potrebbe prevalere sullo «yes» 60 a 40, più o meno. Ma il referendum non sarà tenuto a bocce ferme. Come nel giugno del '75, quando al referendum sull'ingresso della Gran Bretagna nella Comunità europea, il 66% dei votanti disse «sì». Non può essere un caso che, alle ultime elezioni - ricorda Kaletsky - «i tories non sono stati affatto premiati per il loro antieuropeismo». In quella circostanza il Times, che per molti anni aveva dato indicazione di voto per i conservatori, scelse una strada diversa: pubblicò i nomi dei 650 candidati, li classificò in due gruppi, prò e anti europei, e invitò a votare per questi ultimi. Risultato: la gran parte di loro non venne rieletta. Secondo Clarke «il nocciolo duro degli antieuropeisti irriducibili non supera il 9% degli elettori». «Non bisogna mai dimenticare», precisa Robert Nye, direttore della Social Market Foundation, un think-tank moderato, «che per gli inglesi la questione europea non è un "top issue", una questione fondamentale, come nei Paesi continentali». Dipende molto, quindi, da come il quesito verrà posto e in quali circostanze. E' interessante riflettere su tre frasi pronunciate da Blair nel suo discorso del 24 marzo scorso di fronte all'Assemblea francese: 1) «il futuro della Gran Bretagna risiede nell'essere parte dell'Europa a pieno titolo»; 2) «l'Unione europea è una necessità pratica»; 3) «non voghamo degli Stati Uniti d'Europa guidati da burocrati». Leggendole di fila, se ne ricava il quadro molto chiaro di un europeismo convinto ma pragmatico, suggerito innanzitutto da convenienze economiche e legato a una visione, come si dice, «funzionalista» dell'Europa, intesa in contrapposizione a quella «federalista» (sì alla massima integrazione, no all'unità politica). E'' una base alla quale potrebbe aderire, se ben convinta, la stragrande maggioranza del popolo britannico. Il cavallo di Troia Usa Nel suo diario, il generale Charles de Gaulle commentò con queste parole la richiesta di Harold Macmillan del '61 di aderire finalmente al processo europeo: «Non essendo riusciti dall'esterno a prevenire la nascita della Comunità, gli inglesi adesso pianificano di paralizzarla dall'interno». E' la vecchia idea, cara soprattutto ai francesi, della Gran Bretagna come cavallo di Troia degli Stati Uniti d'America in Europa. «Yes, my friend - spiega lo storico Paul Johnson con toni fatalistici -, la verità è che in questi anni lo stretto della Manica è diventato molto più largo dell'Oceano Atlantico». Ma nei giorni scorsi il Daily Telegraph ha pubblicato un articolo di Newt Gingrich, in cui il capo dei «conservatives» ultraliberisti a Washington invita la Gran Bretagna a entrare negli Stati Uniti d'America piuttosto che negli Stati Uniti d'Europa. Il sasso è caduto nello stagno senza neppure fare onde. «E' vero - sostiene Nye - che in questi anni ci siamo senz'altro avvicinati agli Stati Uniti come modelli politici e sociali, ma la Gran Bretagna rimane nettamente più vicina all'Europa». «Siamo seri, l'unificazione europea è un'idea alla quale non possiamo resistere», conferma John Lloyd, biografo di Blair, nel suo ufficio al New Statesman. «Se non altro perché, qui in Gran Bretagna, le grandi multinazionali contano sempre di più e Shell, Bp, Glaxo e Unilever spingono fortissimo per l'ingresso in Europa». Il piano di Blair, quindi, ha buone possibilità di riuscire, purché si abbia in mente l'idea di un'integrazione europea non dominata da un frettoloso volontarismo politico. Ma rischi per il progetto del Prime Minister ce ne sono e vengono soprattutto dalla sfera economico-sociale e dall'annunciarsi, come vedremo, di una recessione prossima ventura. Paolo Passarmi (1 - Continua) INCHIESTA 1. Nella Gran Bretagna , 1 . NEW Ìf4>^ LABOUR \,> -■.JÌLjr' 1 1%: Al Presiede oggi una cerimonia da cui il suo Paese si è autoescluso Per l'ex cancelliere dello Scacchiere tory Clarke, «il nocciolo duro degli antieuropeisti irriducibili non supera il 9% degli elettori» Il biografo del premier: «L'ingresso nell'Ue è un'idea cui non possiamo resistere, se non altro perché lo vogliono le multinazionali di qui» Finanzieri delia City sul Tamigi. Le multinazionali spingono perché Londra entri nell'Unione monetaria il più presto possibile Presiede oggi una cerimonia da cui il suo Paese si è autoescluso l tii dl f lNye direttore della Social Mar Finanzieri delia City sul Tamigi. Le multinazionali spingono perché Londra entri nell'Unione monetaria il più presto possibile Churchill