Messina, regno in mano a una mafia invisibile di Francesco La Licata

Messina, regno in mano a una mafia invisibile Messina, regno in mano a una mafia invisibile RETROSCENA RAPPORTO DALLO STRETTO PROMA ROVINCIA babba? Per anni ne sono stati convinti anche gli osservatori più smaliziati. Oggi, soprattutto alla luce di quanto sta venendo fuori dal «pozzo nero» che la Commissione antimafia scandaglia a Messina, non c'è nessuno che possa negare come la città dello Stretto rappresenti una delle più agguerrite centrali affaristicomafiose che operano nel Meridione. Domani l'ufficio di presidenza dell'Antimafia renderà nota la relazione finale sull'ormai famigerato «caso Messina». L'«affaire» ha tenuto le prime pagine dei giornali per il coinvoigimento del sottosegretario Angelo Giorgianni. Ma la presenza dell'ex magistrato in questa vicenda è solo un «particolare», superato - dal punto di vista istituzionale - con le dimissioni del sottosegretario. Il ((buco nero» del potere mafioso di Messina va ben oltre lo sdegno per lo scandalo. Lo testimonia la mole di documenti prodotti dall'inchiesta ministeriale e l'allarme più volte lanciato dal presidente Ottaviano Del Turco, giustamente turbato più dal grumo politico-affaristico-mafioso che attanaglia la città, non risparmiando neppure l'Università, che dal coinvolgimento di Giorgianni. Allarme che trova conferma in una relazione sullo stato della criminalità organizzata nel Messinese redatta dagli analisti della Direzione investigativa antimafia. Un documento che cerca di spiegare senza entrare nel dettaglio di singole responsabilità che saranno con siderate dall'autorità giudiziaria come sia nata «l'anomalia Messina», un modello di crimine organizzato che non trova analogie in nessun'altra realtà italiana. Secondo la Dia, dunque, a Messi na l'assenza di un modello gerar chico mafioso (né ispirato a Cosa Nostra né alla n'drangheta, tranne rarissime eccezioni) non può essere altro che «una precisa scelta strate gica della mafia». Si è voluto, in so stanza, evitare - in quel territorio la creazione di un «rappresentante provinciale», organicamente inseri to nell'organismo dirigente crimi naie, per tenere lontani i riflettori e le curiosità degli investigatori, la sciando al riparo gli ingenti affari che mafia e n'drangheta, in accordo, gestiscono tra Sicilia e Calabria sin dagli anni '70. Esattamente quando don Paolino Bontade curò il tentativo di organizzare una «famiglia» di Cosa Nostra a Messina. Il tentativo fallì perché, dicono i collaboratori, «allora la n'drangheta non dava spazio ad altre organizzazioni». Se la mafia - sottolinea la Dia voleva spingersi a Messina cercando sinergie con «i calabresi», ciò vuol dire che vi erano motivi precisi: soldi e affari. Non è casuale, in quel periodo, ed anche dopo, la scoperta di un vasto traffico di stupefacenti. Né può definirsi occasionale la scelta di Nitto Santapaola, che opta per una latitanza «turistica» a Taormina, dove peraltro la malavita è come se non esistesse. Una «precisa scelta», quella di Cosa Nostra, dimostrata anche dal provato interesse economico-finanziario di mafiosi del calibro di Liggio, Agate, Greco, Bagarella, Rima e Cannella, che nell'82 investono nell'edilizia a Messina, in un consorzio denominato - senza molta fantasia - «La casa nostra». Un filo lungo, dunque. Un filo che unisce Calabria e Sicilia e che tiene al centro la provincia di Messina, ufficialmente non affiliata, ma sostanzialmente più che mafiosa. Dice il documento Dia; «Si riscontrano segnali che indicano Messina come uno snodo di traffici e di collegamenti di valenza strategica che coinvolgono sia Cosa Nostra che la n'drangheta e che entrambe hanno interesse a proteggere con particolare cura». Grandi traffici. Come quelli attribuiti all'avvocato Filippo Battaglia, messinese residente in Perù. Un uomo interessante per i suoi contatti col finanziere Khashoggi, con esponenti della criminalità finanziaria del calibro di Rosario Cattafi (in carcere per le vicende dell'Autopar- co di Milano) o di Rosario Spadaro, operatore finanziario residente nelle Antille. Le indagini su Battaglia hanno permesso di accertare la sua presenza, in veste di intermediario, nella vendita di armi a Paesi nordafricani da parte della «Breda» e della ((Agusta». Altro personaggio interessante è Waleed Issa Khamays, esponente del «Fronte di lotta popolare palestinese» che avrebbe fatto acquistare cocaina in Brasile ad una organizzazione di siciliani e calabresi. Khamays, cittadino giordano, ha curiosamente soggiornato a Perugia, a Messina per cinque anni, poi a Favara (provincia di Agrigento). Quindi si è trasferito a San Paolo del Brasile, occupandosi dell'approvvigionamento di stupefacenti per le mafie italiane. Ma perché questi riferimenti a personaggi ((particolari» dei vari si stemi criminali? La Dia li identifica come possibili tramiti attraverso cui Cosa Nostra e n'drangheta penetrano nel mondo politico-finanziario. Il tutto agevolato da rapporti di massoneria, che a Messina sembrano regolare la vita di ogni giorno. Interessi appetitosi? Così si esprime la Dia: «Se si pensa al ventilato ed annoso progetto relativo alla realizzazione del ponte sullo Stretto, appare sufficientemente chiaro che si tratta di interessi tali da giustificare, ad esempio, uno sforzo teso a sottrarre più possibile l'area della provincia di Messina all'attenzione degli organismi giudiziari ed investigativi». Ecco il perché dell' «anomalia». Francesco La Licata «Sinergie» tra boss siciliani e calabresi per controllare traffici di droga e armi e gli appalti