Il banchiere doc che giocò nel Toro di Zeni

Il banchiere doc che giocò nel Toro Il banchiere doc che giocò nel Toro MILANO. Di se stesso dice: «Ho fatto tutti i mestieri che si possono fare in banca, a cominciare dallo sportello». E con gli amici torinesi, quelli che lo conoscono dagli anni dell'università (lettere e filosofia), gli unici con i quali si lascia andare a qualche battuta, con loro è più esplicito: «Sono un poveretto che ha sempre lavorato in banca per 50 anni». Una battuta,certo, ma che - poveretto a parte - descrive come meglio non si potrebbe l'uomo Luigi Arcuti, classe 1924, torinese doc, amante del basso profilo a tutti i costi, una vita da banchiere, al Sanpaolo prima, all'Imi poi, che ieri è stato designato alla guida del colosso che nascerà dall'unione tra le due banche della sua vita. E pensare che da piccolo sognava di fare il terzino. Un grande terzino, visto il fisico, alto e massiccio. Una passione vera, quella per il calcio: da terzino passò più avanti, mediano tra le riserve del Torino, carriera stroncata - si fa per dire - da un'ernia al disco verso i trenta. Così finì il calciatore e cominciò il banchiere. Che all'inizio fu semplice bancario: impiegato neolaureato al Sanpaolo nel '45, dodici anni in trincea (allo sportello), poi funzionario, condirettore di sede all'inizio degli Anni Sessanta, direttore centrale nel Settanta, su, su fino a direttore generale nel 1974. Nell'80 il grande salto: da Torino a Roma, presidente dell'Imi, vecchio e (allora) un po' scricchiolante istituto lì lì per essere travolto dalla consuetudine, tutta partitocratica, di fare da grande elemosiniere a imprenditori (chimici e petrolieri, in particolare) molto vicini ai partiti di governo. Il cattolico Arcuti, amico di don Picchi, cattolico alla piemontese insomma, pronto a dare una mano alla moglie per aiutare l'infanzia abbandonata, di tessere in tasca non ne ha. Ma quando qualcuno - per esempio i socialisti di Craxi, a metà Anni 80, che gli contestavano l'aiuto dato a Carlo De Benedetti nella scalata alla Sme cominciò a contestare la presidenza di quel torinese «testardo che non dava ascolto a nessuno», scoprì - suo malgrado che Arcuti era in una botte di ferro perché la presidenza dell'Imi, prima della trasformazione in spa, era l'unica carica a vita nel mondo bancario insieme a quella di governatore. Meglio così, visto che Arcuti continuò ad andare avanti di testa sua, facendo tutto il contrario di quello che i presidenti dell'Imi fino allora avevano fatto. Lasciò perdere i politici e si concentrò sul business, riportò l'Imi all'antica solidità e fece conoscere agli italiani i fondi d'investimento venduti dalla Sigeco. Il suo credo? «La banca come impresa». Per questo, diceva, gli pesava l'andare avanti e indietro tra Roma e Torino, tra l'ufficio all'Eur e la casa in centro a Torino: «A Roma c'è meno cultura industriale - spiegava solo un anno dopo la sua nomina all'Imi - e più che altrove è alto il costo del non-decidere». Altri tempi, forse. Anche se tutt'oggi il torinese Arcuti a Roma preferisce re- ■ starci il tempo indispensabile, due, tre giorni la settimana al massimo, e non ha mai preso casa preferendo una stanza allo Sheraton, albergo che ha il vantaggio di stare lungo la tangenziale, venti minuti d'auto dall'aeroporto, un'ora di volo da Torino. Tutto banca e casa, insomma. Nessun vezzo, nessuna mondanità, vancanze tranquille, tipicamente borghesi, a Bardonecchia e Bordighera. Un'insofferenza innata per ogni genere di protagonismo e quindi, immaginatevi, se potete, la sua reazione quando qualcuno l'ha descritto o lo descrive come l'antagonista primo di Enrico Cuccia e di Mediobanca: meglio lasciar perdere. Armando Zeni

Persone citate: Arcuti, Carlo De Benedetti, Craxi, Enrico Cuccia, Luigi Arcuti