SPIKE LEE La febbre del basket

SPIKE LEE La febbre del basket Esce «He Got Game»: lo sport metafora di conflitti sociali e familiari SPIKE LEE La febbre del basket PERSONAGGIO IL REGISTA CHE VUOLE NEW YORK. «Dovrei essere ammazzato se dicessi che sono lo stesso regista di cinque anni fa o di ieri». Comincia come un fiume Spike Lee mentre parla della sua opera numero dodici: «He Got Game», che uscirà nelle sale americane il 1° maggio e sintetizza la sua passione per il cinema e il basket. «Sono cambiato, adesso sono molto più bravo», ammette con finto candore. Come sempre succede sia a lui sia a Woody Alien, il suo equivalente dei quartieri bianchi e alti di New York, tutti aspettano le loro creature col fiato sospeso. «Questa volta racconto il rapporto tra padre e figlio, tra Jake Shattlesworth e suo figlio Jesus, che si ricostruisce, anzi rinasce attraverso il gioco del basket». Autcbiografico? «In parte. Mio padre, che era un musicista jazz, mi iniziò allo sport, mentre mia madre era quella che mi dava le regole, mi faceva scoprire il mondo attraverso la conoscenza», racconta Spike Lee, che è entrato nella storia del cinema per le sue battaglie politico-razziali-sociali, che gli sono valse due nominations agli Oscar: una quest'anno per il suo primo documentario, «4 Little Girls», e uno nel 1986 per «Shee's gotta have it», il film che ha dedicato alla parità di diritti a letto tra uomo e donna. «A noi afro-americani hanno sempre dato parti da schiavi e da delinquenti», è il leit-motiv, che ripete con insistenza. Lui, invece, li fa diventare eroi. Come è successo questa volta, in cui Ray Alien, un vero campione di basket, fa la parte di Jesus e interpreta se stesso. «Volevamo che le scene di gioco fossero le più autentiche possibili, senza trucchi o stunt-men», sottolinea Lee, che non smette mai di lottare per rendere i suoi film il più verosimili possibile, «ma con un professionista vero saltavano fuori due problemi: da un lato doveva essere giovane abbastanza da sembrare uno studente di college, dall'altro doveva comportarsi in maniera naturale davanti alla macchina da presa». Per uno come lui, abituato alle sfide, da quando giocava da bambino nei campi del suo quartiere, Fort Green, a Brooklyn, era poca cosa. «Alla fine la scelta è caduta su Alien perché i migliori giocatori al mondo stanno nella squadra degli Nba, e soprattutto perché ha una capacità innata di recitare». In tre settimane, infatti, ha imparato l'arte di stare davanti alla macchina da presa talmente bene, da diventare la vera star del film. Al punto che Denzel Washington, nella parte del padre, finito in prigione perché in un impeto di violenza ha ammazzato la moglie senza volere, di fronte a lui sembra quasi goffo e impacciato. «Lavoro con Denzel da nove anni e questo è il terzo film che facciamo insieme», dice Lee. «Dopo "Mo' Better Blues" e "Malcolm X", oramai siamo amici e insieme cerchiamo di fare emergere la verità, che sta in ogni personaggio». Patito di basket al punto da non perdersi una sola partita dei suoi adorati Kniks al Madison Square Garden, Lee ha voluto raccontare di questi ragazzi, questi campioni, che nella società americana sono considerati come delle banche ambulanti, delle macchine per produrre milioni di dollari. «La storia si svolge una settimana prima che Jesus scelga in quale scuola andare. E tutti se lo contendono, ognu¬ no ne vuole un pezzo», racconta, «tutto il dramma sta dentro di lui perché non sa di chi fidarsi o per di più rivede il padre dopo sei anni e mezzo di carcere». Perché ha chiamato così il suo personaggio? «Non per Gesù di Nazareth, ma perché Jesus è il diminutivo di Earl Monroe, detto anche "la perla", che era il giocatore preferito di suo padre Jake». Il quale Earl Monroe è stato anche lui assoldato nel cast come consulente per assicurare al film la credibilità, pallino fisso di Lee, che un anno fa ha pubblicato con Crown «Best Seat in the House», la sua autobiografia come spettatore. «Il racconto della mia vita lo farò in un altro volume», dice con il suo sorriso a 360 gradi. Sempre in nome della credibilità, tutti i ragazzi neri di Coney Island, a Brooklyn, dove si svolge «He Got Game», parlano la loro lingua speciale, che non è l'inglese, ma uno slang, 1' «ebonics». Questo, insieme al ritmo della musica rap composta dal famoso gruppo «Public Enemy» (Chuk D, Flavor Flav, DJTerminator X, Professor Griffi, dà colore e vita al film. Spike Lee ce l'ha messa tutta. «Ho dato a Chuk D la sceneggiatura e gli ho fatto vedere il film al montaggio, prima che cominciassero a comporre le 13 canzoni, che accompagnano la storia». Ha scelto questo musicista perché pure lui è un patito di basket. «Avevamo bisogno di qualcuno che conoscesse di che si trattasse dall'interno». Insomma «He Got Game» è stato studiato a tavolino per avere le carte in regola: sport, comunità nera, famiglia, rap, business. Sì perché il regista di Brooklyn, che il 20 marzo ha com piuto 41 anni, da poco si è tuffato nel mondo degli affari e ha fondato l'agenzia di pubblicità Spike DDB, 50 milioni di dollari come budget del primo anno di vita e ha tra i suoi clienti pure McDonald's. «Va glio dare lo stesso marchio dei miei film e degli spot, che ho girato per Nike e Levi's, fin dal 1988», dice Lee, contagiato nella pubblicità anche nel suo mestiere di regista. Un'altra sfida, dunque. Portare la cultura americana giovane in un mondo che è stato fino ad oggi monopolio dei bianchi. Fiamma Arditi Il film, con Denzel Washington e il campione vero Ray Alien, in America dall' musiche sono gruppo rap «-Ara «-Ara Il film, con Denzel Washington e il campione vero Ray Alien, in America dall' musiche sono gruppo rap EE e et Il gruppo rap dei Public Enemy, autore della colonna sonora di «He Got Game»; a destra, Spike Lee, giunto al dodicesimo film; sotto, il protagonista Denzel Washington

Luoghi citati: America, New York