Nella moschea che incendiò Algeri

Nella moschea che incendiò Algeri Così Lounici, rampollo di una famiglia di commercianti, è diventato un profeta di morte Nella moschea che incendiò Algeri Tra i fedeli dell'imam agli arresti a Milano ALGERI DAL NOSTRO INVIATO Passeggio tra gli eucalipti e i negozi della me Didouche Mourat alla ricerca dell'altra estremità di un filo che prima di partire avevo afferrato a Milano, in uno spoglio appartamentino nei pressi del ponte della Ghisolfa. E forse il più elegante boulevard algerino, ha conservato i caratteri francesi di quando si chiamava rue Michelet e le bombe del Fin facevano saltare per aria i suoi caffè coloniali. Dunque il Plateau è rimasto un quartiere borghese, bei palazzi bianchi che evocano Nizza. Niente a che vedere coi parallelepipedi scrostati di Bab El Oued abitati fmo al 1962 dai pieds noirs e ora presidiati minacciosamente dalle bande di strada dei disoccupati. Niente a che vedere con la Kasbah derelitta i cui residenti sono stati trasferiti in una bidonville vicino alla Fiera, mentre il tufo intagliato e le ceramiche s'ammucchiano in cumub di detriti. Eppure è qui, nell'apparente normalità del Plateau, lontano dalle incontenibili nuove periferie con cui i disperati profughi dalle campagne stanno gonfiando Algeri ben oltre i tre milioni di abitanti, è qui che devo cercare l'altra estremità del filo, se voglio rispondere alla domanda: chi ha incendiato l'Algeria? Com'è potuto accadere in riva al Mediterraneo che il pensiero totalitario dell'islamismo dilagasse via via come movimento popolare, potere terrorizzante, guerra di sterminio? Lascio a destra rue Didouche Mourat, scendo una scalinata, svolto in una strada cieca al fondo della quale m'imbatto final mente in quel che cercavo. La moschea del Plateau non è tra le più belle di Algeri, solo qualche girasole di ceramica ne decora le pareti color sabbia. E' l'una e quaranta della domenica di Pa sema, un giorno feriale qualsiasi per i musulmani, ma è anche l'ora della preghiera meridiana e dunque centinaia di fedeli ingi nocchiati si voltano a osservare lo straniero che calpesta (a piedi nudi, ovviamente) la moquette verde, scortato da tre inconfon óabUiflic. Qui si ricongiungono i due capi del filo, perché proprio di questa moschea del Plateau mi aveva parlato con gli occhi lucidi di nostalgia, nell'appartamentino mi lanese dov'è recluso agli arresti domiciliari, un omone da un me tro e novanta, altero nella sua tonaca bianca, in testa Yaraka come si conviene a un imam, cioè a un capo religioso islamico. E' Djamel Lo unici, membro della majlis shura (assemblea consul tiva) del Fis (Fronte di salvezza islamico) oggi fuorilegge, due volte condannato a morte in Al geria, dichiarato terrorista dalla Francia, fuggito in Italia e qui sotto processo dopo tre anni di carcerazione preventiva, nove mesi d'isolamento assoluto e due mesi di sciopero della fame. Lui nega ogni ruolo nella lotta armata e, come dirigente del Fis, rivendica solo di essere stato l'i marn della moschea del Plateau, questa, luogo cruciale perché situato nel cuore pulsante di Alge ri. Ma come è possibile un imam così giovane? Oggi il Lounici mi lanese ha soli 36 anni, ne aveva appena 31 quando, anni fa, fuggi dall'Algeria. Vuol dire che l'islamismo si era inventato un clero poco più che adolescente? Ecco, forse la storia di Lounici è la storia dell'incendio che deva sta la costa Sud del Mediterra neo. Figlio di solidi commercianti del Plateau frequentatori della moschea, i suoi fratelli hanno ancora qui i negozi e gli affari non vanno niente male. «A 18 anni, nel 1980, cominciavo già la mia lotta di buon musulmano, e subito assaggiavo le torture dalla polizia», racconta. Il suo nemico lo incontra all'università: «Noi studenti islamici ci battevamo con tro il regime socialcomunista del partito unico e contro gli studenti di sinistra. Ma il popolo era dalla nostra parte. A guidarci nello studio della chaaria, la scienza islamica, ma anche nella lotta, erano professori legati ai Fratelli Musulmani come Abbas Madani, futuro leader del Fis». Un ingegnere del Plateau che vuole rimanere anonimo ricorda bene quanto furono sanguinosi gli scontri al Politecnico: «Io stesso fui condannato a morte dagli islamici. Pretendevano che le sale comuni delle residenze studentesche fossero trasformate in moschee, indifferenti al fatto che 11 di fronte ci fosse già un luogo di culto. E vinsero. Si ruppero molte amicizie. Ricordo l'ultima volta che incontrai da vivo Omar "Commando" Ghessum, un capo militare del Fis che ha lasciato cinque figli ma che per me era solo il vecchio compagno di scuola. Feci per abbracciarlo. Mi fermò: "Non posso abbracciare chi tocca l'alcol e frequenta gli impuri"». Lounici e gli altri come lui uscirono dunque dalle università al principio degli Anni Ottanta e, autoproclamatisi imam, presero le moschee. «E' vero, sono un imam autodidatta, però i fedeli del Plateau seguirono subito me, e il Profeta dice che un imam per essere accettato deve essere scelto dai fedeli». Il primo fuoco, dunque, furono i discorsi incendiari contro il regime comunista e impuro tenuti nell'universo interamente maschile delle moschee da questi giovanissimi studenti. Di fianco alla lunga scarpiera di legno, dentro la moschea del Plateau, una scala stretta porta giù al lavatoio. «Fu lì dentro - mi rivela l'ingegnere - che il ventenne Lounici e i suoi seguaci chiusero a chiave il vecchio imam moderato, dichiarandosi con ciò nuova guida religiosa della comunità. Lui era passionale, trascinante, è comprensibile che piacesse ai giovani». Nel racconto di Lounici, sono anni meravigliosi: «La moschea nell'Islam è un tutto: centro politico, sociale, religioso, scolastico, sanitario. Un consiglio dei saggi regolava i conflitti familiari. La scuola coranica era affollata, il medico lavorava gratis, l'adesione al Fis era unanime». Un'alta autorità morale di Algeri, della cui parola disinteressata è impensabile dubitare, ritrae ben diversamente quell'epoca: «Prima venivano da me gli imam a chie dere asilo perché gli impedivano di parlare in moschea. Dal 1990 cominciai a ricevere i condannati a morte. In tutta Algeri venivano affisse sulle porte delle moschee le Uste con i condannati a morte del quartiere. Lo chieda a Lounici, se non è vero: chi le affiggeva quelle liste sulle porte delle "loro" moschee? A quei tempi mica esisteva il Già...». Era l'onda islamista, rozza se confrontata alla secolare cultura islamica, ma possente. Sommergeva la libertà delle donne e replicava alla violenza del regime con una violenza altrettanto arbitraria. Ma a molti parve l'unica spinta in grado di cambiare l'Algeria, scrollandosi di dosso l'oppressione di una casta burocratico-mihtare corrotta e arrogante. Si fecero trascinare dagli imam come Lounici masse di diseredati, ma anche i commercianti del Plateau cui il Fis prometteva di ridurre le tasse. Si affidavano al fondamentalismo proprio come nel '79 il baazar di Teheran aveva appoggiato Khomeini. Il dopo, cioè l'annullamento di elezioni vinte dal Fis in un clima di intimidazione, astensioni massicce e uomini che votavano anche per conto della propria donna, segna l'inizio dell'odissea di Lounici. «Vennero a prendermi in moschea il 17 gennaio 1992 dei militari, mi incappucciarono e fui caricato a bordo di un'ambulanza. Le torture durarono ventitré giorni. Nudo, incatenato mani e piedi a un letto di ferro, scariche elettriche e sigarette spente addosso per conoscere i nomi dei dirigenti del Fis entrati in clandestinità». Liberato alla fine dell'anno, sarebbe scappato in Europa attraverso il Marocco, «per continuare la lotta politica all'estero». Così Lounici è passato mentre resta la moschea del Plateau, qui, nell'aprile ventoso di Algeri, vasto locale spoglio e privo di ogni suggestione non fosse per l'incontenibile energia della fede che vi si percepisce. Una forza spirituale immensa, forse sovversiva, di certo indomabile che leggiamo negli occhi dei fedeli rivolti all'intruso, molti uomini con un livido sulla fronte a testimonianza della prostrazione ripetuta cinque volte al giorno. Chiedo del nuovo imam. Si presenta impau- rito un don Abbondio di 60 anni chiamato Moukhar che all'inizio finge di non capire il francese. Indossa un colbacco e una giacca di lana pesante sulla tonaca: «Sono malato, malato di cuore», insiste. E a riprova estrae dal taschino le pillole dell'infartuato. «Non mi occupo di politica, rivolgetevi al ministero degli Affari religiosi, sono loro che mi hanno messo qui. Lounici? Non so come fun zionasse la moschea con lui, so solo che adesso qui si prega e ba sta». Non desisto. Chiedo alla scorta di allontanarsi e mi piazzo sulla scalinata d'uscita della moschea, tra il mendicante cieco che mi rotola addosso e gli altri che sputano intorno. Al solo sentire il nome Lounici in molti schizzano via come fossi un postulante anch'io. Ma c'è invece chi si ferma, come il ragazzo barbuto dal giubbotto di pelle moderno e la coda di cavallo: «Come sta? E' uscito di prigione? Lei ci sta dando una bellissima notizia, perché qui lo ricordiamo con affetto». E il vecchio che non ha più nulla da temere: «Me lo ricordo durante il Ramadan, pregava a voce alta e intanto piangeva, piangeva». Un altro ragazzo con indosso la tonaca della tradizione, lo sguardo dolcissimo, studente al Politecnico: «Oggi è più difficile essere musulmano in Algeria. Basta vestirsi come me per essere guardati male, sospettati». E' chiaro, nelle moschee normalizzate per via burocratica il fuoco cova ancora sotto la cenere. Come mi confermano, criticando il ministero degli Affari religiosi, sia Omar Belouchet, il laico direttore di El Watan, sia i leader del partito islamico moderato Hamas. Basta fare pochi passi, uscendo dalla moschea del Plateau, per imbattersi nel clima opposto, ed è questo il fascino inquietante, modernissimo, dell'Algeria: perché sempre lì in rue Didouche Mourad ha sede il più laico dei partiti maghrebini, U Red, Movimento per la cultura e la democrazia guidato da Said Sadi e dalla coraggiosa Khalida Messaoudi, pluri-condannata a morte dagli integralisti. Nell'atrio, incorniciate da ghirlande di fiori, le fotografie dei «Notres camarades victimes de la bète immonde». Alla Messaoudi riferisco gli attestati di devozione appena uditi sul conto di Lounici: «Perché, non ci sono forse tanti francesi che apprezzano Le Pen? Purtroppo fu il regime militare a legittimare gli autoproclamati imam del Fis, nell'illusione di perpetuarsi gra- zie all'alleanza con gli islamisti. Ne è scaturita la tragedia. Ma si rende conto che tra il '95 e il '96 si contavano minimo cento morti al giorno nella sola Grande Algeri? Lounici e il suo Fis erano un movimento insurrezionale, in grado di instaurare il terrore islamico. Oggi non più, sono sconfitti. Ma lei che è ebreo può immaginarsi cos'è stata la gente impaurita che ti evitava, si allontanava. Solo un nocciolo duro di resistenza, le donne in prima fila, stabilì che bisognava continuare a parlare, a lavorare. E così ora la gente ha meno paura, perfino io torno ad essere frequentabile». E' un fiume in piena, la Messaoudi, contro il Fis che, «sconfitto, ripiega a far strage nei villaggi isolati di campagna. E non mi si dica che sono folli o che sono poveri, non lo sopporto: sono coerenti con la loro ideologia totalitaria. Mi spiace ma qui, quando sgozzano un bambino, lo fanno in nome di Dio». Nell'appartamentino-carcere di Milano, l'imam Lounici nega: «L'Ais, cioè l'armata del Fis, osserva una tregua dal 1° ottobre '97, e da allora tocca al governo algerino dimostrare se vuole risolvere politicamente la crisi trattando con noi. Quanto alle stragi, la responsabilità degli islamici andrebbe provata. Noi accusiamo il potere, perché un buon musulmano non uccide donne e bambini, tanto più che le vittime si contano soprattutto nei villaggi dove il Fis era egemone». E' difficile districarsi tra le dichiarazioni rilasciate ai media occidentali e quelle dedicate ai media arabi riguardo al Già, i gruppi islamici armati che attuano i massacri. Su al Wasat, settimanale arabo stampato a Londra, per esempio, lo stesso Lounici dichiara testualmente che «all'inizio il Già seguiva una linea corretta». Oggi invece l'operato del Già viene attribuito in toto alle forze armate algerine. Pare un'acrobazia dialettica, smentita da troppe testimonianze e dal travaso continuo di militanti dal Fis al Già. Evidentemente il gruppo dirigente del Fis in esilio, con il suo leader Madani che si trova agli arresti domiciliari a Algeri, sta tentando di separare il proprio destino politico da quello dei massacratori. Ma l'impressione è di una svolta fuori tempo massimo, ininfluente sulla furia islamista dei guerriglieri che autolegittimano gli eccidi con fatwa costruite su misura. «C'è una relazione di causa effetto tra Fis e Già», sostiene Ait Messaoudene del movimento islamico moderato Hamas. «Prima il Fis usava la violenza del Già, ora che è troppo tardi cerca di distinguersene. Ricordo quando fu sequestrato il nostro ulema Mohamed Bouslimani, e poi ucciso perché si rifiutò di emettere una fatwa che autorizzasse le punizioni omicide. Quelli del Fis prima esultarono, poi dissero che era stata la polizia». E' ancora un mistero chi possa guidare nel futuro l'energia prorompente dalla moschea del Plateau, ma resta impressa la sua somiglianza straordinaria con gli scantinati divenuti luogo di culto islamico nelle nostre città, distanti solo un'ora di volo. Com'è simile Algeri a Marsiglia, a Genova, a Napoli. Due estremità dal destino indissolubile, com'è unico il filo srotolato dalla Bianca fino alla periferia milanese. Impossibile spezzarlo. Gad Lerner (3 - Continua) Lungo il viale del Plateau il quartiere borghese della capitale dove predicavano gli islamici qualche giovane li rimpiange la maggioranza li maledice Khalida Messaoudi leader democratica «Il Fis è battuto per questo ripiega nelle campagne a fare strage» Gli ultra replicano come una cantilena che i massacri sono opera della giunta militare Sui muri e nelle moschee di Algeri l'ombra del Fronte islamico di salvezza non si è ancora dissolta Di fianco, una delle rare immagini di Djamel Lounici, l'imam agli arresti domiciliari a Milano per terrorismo Sopra, Khalida Messaoudi