Hadjout, la guerra degli innocenti

Hadjout, la guerra degli innocenti Nel giardino d'infanzia inviso agli ultra che accoglie trovatelli «figli della colpa» Hadjout, la guerra degli innocenti Vivere assediati dagli integralisti del Già HADJOUT DAL NOSTRO INVIATO Alla pouponnière de la generosità mi sono presentato nella maniera peggiore. Senza appuntamento, perché da Algeri era stato impossibile stabilire un contatto telefonico con Hadjout - la coloniale Marengo fondata dai francesi nel 1848, estremo lembo occidentale di una verdissima pianura denominata Mitidja - oggi meglio nota come «triangolo della morte» avente per vertici Medea, Blida e, appunto, Hadjout. La dozzina di gendarmi armati di mitra che avevano scortato per novanta chilometri a sirene spiegate il mio taxi, in un convoglio formato da due gipponi e un'auto militare, sono adesso tutti per strada insieme ai poliziotti locali e battono con le mani sulla cancellata di ferro dipinta in vernice azzurra. Nel frastuono, giustamente, nessuno apre. Ma quando infine mi hanno lasciato entrare nel giardinetto tra il salice, l'ibiscus e il ciclamino, la signora Jacqueline Tidafi, direttrice di questo ricovero per neonati facente capo all'Associazione algerina per l'accoglienza benevola dell'infanzia (Efab), ci mette poco a ritrovare il sorriso: «Il guardiano ha ordine tassativo di non fidarsi neppure delle divise senza prima aver verificato al posto di polizia. Il momento è molto teso, la bestia ferita è più pericolosa, i terroristi del Già sono specialisti nei falsi posti di blocco travestiti da soldati». Penetrare all'interno di questo djenan el kheir, cioè giardino delle IMS buone azioni, e trucidarne col rito sacrificale del coltello alla gola le sedici operatrici e i diciotto piccoli ricoverati, costituirebbe per gli islamisti che oggi in Algeria stanno profanando il senso stesso dell'Islam una speciale, aberrante buona azione. Sembra inverosimile, ma è così. Più volte, nelle due moschee di Hadjout, gli imam del Fis, prima di essere messi fuori legge alla fine del '91, hanno tuonato contro la casa del peccato che ospita figli indegni di vivere perché generati al di fuori della norma coranica. Figli del cosiddetto «matrimonio temporaneo» che i guerriglieri hanno artificiosamente riesumato dal Libro per giustificare, in quanto bottino di guerra santa, ratti e violenze sessuali. Ma più spesso ancora, semplici figli illegittimi, frutto di un'avventura amorosa o anche di un normale rapporto col promesso sposo. Del resto il Fronte di salvezza islamica, che nella vicina università di Blida ha avuto una sua roccaforte, egemonizzava saldamente tutte le amministrazioni locali della Mitidja. Quando è passato alla lotta armata, e tra i suoi combattenti si contano tanti ragazzi ben noti frequentatori delle moschee di Hadjout - altro che i «misteriosi assassini» di cui troppo spesso si favoleggia in Europa - sulla pouponnière hanno cominciato a piovere le lettere di condanna a morte: «Chiudete subito, seguaci di Satana, se non volete finire perseguiti dai soldati di Dio». Non ci si illuda che la barbarie possa mantenersi solo verbale. Nella Mitidja i morti innocenti si contano in parecchie migliaia, anche se dopo un'offensiva militare il terrorismo pare sospinto verso Ovest. Arrivando da Algeri con la mia scorta troppo vistosa lungo la costa mediterranea, sono passato accanto al monte Chenoua, sulla cui cima il santuario di Lalla Taforalt viene venerato come garante della castità e della fedeltà delle donne. Proprio lì hanno appena sterminato una famiglia di sei persone tra cui un bimbo di sei mesi decapitato, svuotato dei visceri e infine legato su una tomba del cimitero. VUna .' armperUna donna mun agente di pdi linea devastato «Mon chéri, AU mi ha mandato un cartone di latte e allora mi sono calmata». Il caschetto di capelli rossi e gli occhiali di tartaruga ovali, Jacqueline Tidafi non ama parlare della sua condizione di reclusa, «perché i bambini sentono l'ansia, il loro primo bisogno è la rassicurazione e dunque qui dentro lo stress è proibito». Ma è un fatto che da due anni non le è consentito varcare il cancello azzurro se non - scortata - nei rari casi di un ricovero pediatrico urgente o di una visita all'ufficio dell'Efab nella capitale. Dormire altrove, camminare per la strada, sarebbero leggerezze imperdonabili, ma lei minimizza: «Quando arrivarono le prime lettere di guerra a questa nostra istituzione musulmana, sottolineo musulmana, io e mio marito abbiamo riunito le berceuses (letteralmente: le cullatila). Neanche una ha detto "rinuncio", all'unanimità si è stabilito di continuare. Nel '96 se n'è andata via una dottoressa, ma il pediatra del vicino ospedale è molto in gamba. E ogni notte le autorità ci mandano un gruppo di Patrioti armati, per la difesa dei bambini». Uomini col mitra per evitare la morte degli innocenti. Allapouponnière ne parlano malvolentieri: «Quello che accade fuori a noi non deve interessare, i pensieri vanno lasciati oltre il cancello azzurro». Madame Tidafi mi chiede di attendere perché una delle berceuses non si mostra agli uomini senza il velo, poi m'introduce nelle stanze calde e pulite dove conosco bébé di pochi giorni, giunti qui dai reparti di ostetricia vicini o per chissà quali altre vie traverse. I figli della colpa dormono ignari e sereni, accuditi dalle puericultrici secondo il metodo Loczy. «A noi spetta restituire lo ro il diritto di vivere, la voglia di vivere, la gioia di vivere». Nel 30% dei casi, percentuale eccezionalmente alta in un paese musulmano, gli re stituiscono anche una madre, perché sono tante le giovani donne che trovano il coraggio di tornare sui propri passi per affrontare una vita durissima ma forse più serena. Agli altri, dopo i tre mesi e un giorno prescritti dalla legge, verrà destinata una famiglia affidataria. «Li mettiamo seduti lì, nel salottino di vimini. Parliamo un'ora, poi ci consultiamo tra noi: qual è il bimbo più adatto a una tale coppia? Diamogli quello, che gli somiglia. Macché, sono già nervosi abbastanza, diamogli lei che è più calma. Quando infine portiamo il bébé, io li fisso negli occhi: bisogna che si illumini la madre, e si illumini il bambino. Altrimenti se ne riparla tra qualche mese con un'altra creatura». Me l'aveva detto, scuotendo la testa, l'appassionata Khalida Messaoudi, nella sede del suo Movimento per la Cultura e la Democrazia: «Le donne algerine sono state straordinarie, decisive, il nocciolo duro della resistenza. Ma alla fine, purtroppo, nessuno glielo riconoscerà. Fosse per il governo, anzi, ci offrirebbe già di nuovo su un piatto agli islamici». Cosa significa? Significa che per la strada è del tutto normale incontrare a braccetto ragazze con ì'hijab e ragazze in tailleur rosso, per nulla imbarazzate della loro diversità, benché in Algeria - come scrive Yasmina Khadra nel suo Morituri (edizioni e/o) - «capita che si perdoni la colpa, mai la differenza». Ma la salvezza garantita ai neonati dall'eroismo delle donne di Hadjout resta ancora un'eccezione in un paese dove il figlio illegittimo, poiché apporta disgrazia e disonore in famiglia, è destinato alla morte. «Sei scappata per la vergogna insie¬ me alla tua piccola creatura. L'hai portata nei boschi e faceva freddo. Sei tornata senza il bambino...», cantava Bouteldja Belkacem all'inizio del rai. Il parto di nascosto. E poi l'impossibilità di un amore alla luce del sole: «Hanno scritto il tuo nome sui muri, la tua disavventura ormai la conoscono tutti i vicini», canta Boutaiba. Mentre Chaba Fadela dedica la sua musica al massiccio fenomeno delle divorziate, vittime del fallimento dei matrimoni combinati: «Datemi mio figlio e lasciatemi andare». Su questa realtà silenziosa, sancita in un Codice di famiglia oppressivo, costruito insieme nel 1984 dai militari del partito unico e dagli integralisti, oggi s'innesta la nuova tragedia pubblica delle donne rapite e violentate dai gruppi islamici armati. Era la sera del Venerdì Santo cristiano e della Pasqua ebraica, quando la televisione algerina, nel programma «Il diritto alla vita», dava per la prima volta la parola a una seraya (schiava), cioè una ragazza strappata al villaggio nel corso di un massacro, ridotta a preda dei barbuti alla macchia. E' appena adolescente. Racconta il ratto, le violenze, la fuga fortunosa dopo una notte gelida trascorsa su di un albero con gli sciacalli che ringhiavano intorno. Poi la tragedia raddoppia perché, riportata al padre dai soldati, questi la disconosce e la rinnega. I giornali più coraggiosi, come Liberté e El Watan rievocano lo spirito patriottico con cui gli algerini, durante la guerra di liberazione nazionale, si riprendevano in casa le donne umiliate dai soldati francesi. Ma intanto la fatwa preannunciata dal nuovo presidente dell'Alto Consiglio Islamico, Abelmadjid Meziane, per consentire a queste dorme il diritto di interrompere la gravidanza, non è stata ancora emanata. L'indomani sera, di nuovo donne in televisione. Stavolta hanno il velo, uno sguardo fiero e un rossetto squillante. Ma soprattutto impugnano tra le mani inanellate un mitra, spesso sollevato nel gesto della propaganda combattente. Sono della regione di Relizane, là dove nel corso dell'ultimo Ramadan - il più sanguinoso di questi sette anni terribili - furono sterminati in due sole notti quasi cinquecento tra uomini, donne e bambini. Una dopo l'altra proclamano l'intenzione dell'autodifesa armata. Proprio lì, nelle cam pagne di Relizane, e poi nei quartie ri periferici di Orano privi d'acqua, fogna e elettricità, sono nati i primi Gruppi di Legittima Difesa. La popolazione ha ottenuto, cioè, che delle armi fossero distribuite anche tra i civili, in zone dove la polizia fino a ieri non osava neppure penetrare Questo è un passo ulteriore rispetto e , a , i a a e o all'organizzazione paramilitare dei Patrioti - quelli, per intenderci, che presidiano nottetempo la pouponnière di Hadjout: i Patrioti ricevono una paga e una divisa, combattono il Già ma talvolta rischiano di dare vita a milizie private al servizio di questo o quel potente locale, come di recente è accaduto proprio a Relizane e Jdiouia. Gli abusi, i metodi spicci, le esecuzioni sommarie sono all'ordine del giorno in un paese dove quasi necessariamente ogni terrorista preso è un terrorista morto. Ma è un fatto che ci sono giornali liberi molto attenti a vigilare sulla salvaguardia dei diritti umani, e a denunciarne le violazioni. Grazie ai giornalisti coraggiosi, la casta militare non può permettersi più tutta la disinvoltura cui era abituata fin dal 1962. Grazie agli stessi giornalisti, nessun ipocrita può permettersi più di definire «misteriosi» i massacri, perché le testimonianze unanimi dei superstiti convergono nell'individuare la composizione dei gruppi assassini: «Si tratta quasi sempre di gente conosciuta nella zona, giovani estremisti del villaggio accanto, ex militanti del Fis locale, perché la mobilità territoriale dei gruppi del Già resta limitata», mi aveva spiegato Benachour Bouziane, capo della redazione oranese di El Watan, più volte inviato nell'inferno delle stragi islamiche. Nella proliferazione dei Gruppi di Legittima Difesa, i democratici come Benachour vedono un fenomeno positivo: «Insieme al fucile, molto spesso, si distribuisce il senso di cittadinanza dentro quartieri dove fino a oggi ilflic è stato solo un nemico. Diventare un houkouma, cioè un governativo, vuol dire diventare uno che conta. Tra i giovani è una condizione desiderabile quella del poliziotto: significa salario, prestigio, protezione». Certo, il potere dell'opinione pubblica e della nascente società civile algerina permane ancora limitato. Per esempio hanno denunciato gli abusi dei Patrioti a Relizane e a Jdiouia, ma i boss locali, presunti responsabili, sono già stati rimessi in libertà. Come negare che le caserme inaccessibili del generale Lamari restino luoghi predisposti alla tortura o comunque alla violazione dei diritti umani? Eppure è ben comprensibile il fastidio diffuso tra i democratici algerini nei confronti delle organizzazioni umanitarie che oggi, di fronte alle stragi, predicano la necessità di commissioni d'inchiesta internazionali: dov'erano al tempo del partito unico? Perché si rifiutano di riconoscere nell'islamismo armato il nemico principale, che l'Algeria democratica si sforza di combattere estendendo il pluralismo e ridimensionando il potere militare? Di certo Jacqueline Tidafi, murata viva nella sua pouponnière sotto assedio, e con lei le coraggiose cullatrici di neonati, non ce l'hanno quel dubbio su chi sia oggi il nemico da cui guardarsi. Dimenticano anche di riferirmi come l'Onu abbia indicato il loro rifugio tra le cinque associazioni umanitarie da premiare in tutto il mondo. Che importa, se intanto da due mesi le ragazze non ricevono lo stipendio e l'estate scorsa si è dovuta sospendere l'attività per mancanza di mezzi? Sono imbarazzato. Chiedo alla direttrice: che aiuto potremmo darvi, noi, dall'Italia? La risposta è semplice: «Due cose, ci servono davvero. Un'automobile nuova, perché come vede la R4 è ormai troppo scassata. E poi un offset per stampare e diffondere materiale informativo. L'mdirizzo? Basta scrivere Djenan el kheir (Efab), il giardino delle buone azioni, Hadjout, Algeria». Gad Lerner (2. continua) Una dozzina di gendarmi .' armati di mitra scortano per 90 chilometri il taxi a sirene spiegate Donne dai rossetti squillanti mostrano i mitra con gesto di sfida. Sono la difesa armata di Relizane, dove gli islamici hanno massacrato in un mese 500 persone Trucidare i 18 piccoli ricoverati costituirebbe per gli integralisti un'aberrante buona azione NLdd p ;;V.ivI/, Una donna musulmana con il suo bambino. In alto, un agente di polizia esamina l'interno di un autobus di linea devastato da una esplosione [ansa-reuthrs] A sinistra, un gruppo di donne algerine in un mercato del centro della capitale Nella fotografia sotto, Lamine Zeroual, presidente della Repubblica algerina dal 16 novembre 1995 1

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