Un posto al tavolo per l'Europa

Un posto al tavolo per l'Europa ANALISI UN NUOVO ATTORE Un posto al tavolo per l'Europa 77 sogno del Continente: un ruolo nella pace AGERUSALEMME LIA vigilia dei grandi eventi, nessuno dei contendenti è mai disposto a mostrarsi entusiasta. Così il plenipotenziario per i rapporti con gli israeliani di Arafat, Sa'eb Erakat nelle prime ore in cui si è cominciato a parlare del summit di Londra ha subito dichiarato che comunque, andare a discutere con Netanyahu, è sempre una gran perdita di tempo. La destra israeliana ha esclamato che di Blair nessuno deve importarsene niente, e che è molto più serio ed importante in questo momento riflettere sull'assassinio del colono perpetrato due giorni or sono da parte di un gruppo di palestinesi nei territori. Anche Londra si è un po' spaventata, e ha fatto sapere durante la giornata che forse era meglio riparlare di dibattito, di conferenza, più che di un summit decisivo. Ma in realtà sono chiacchiere, e lo si è subito capito quando Arafat, che sa bene cos'è la politica, ieri pomeriggio sul tardi all'uscita dall'incontro col primo ministro britannico a Gaza ha detto che l'idea gli piace, che andrà a Londra il 4 di maggio. I fatti parlano da soli, e ci dicono che si tratterà di un incontro che potrebbe segnare la riapertura dell'intero processo di pace. Prima di tutto, è assolutamente improbabile che un quartetto come Arafat, Netanyahu, Blair, Albright, decidano di incontrarsi a Londra solo per fare una figuraccia davanti al mondo rispetto ad una discussione sul Medio Oriente su cui non si sa più se disperarsi o sbadigliare. Chi sa di dovere dare una svolta politica e di immagine è prima di tutto Bibi Netanyahu stesso che ha sognato sempre di diventare un membro del club dei magnifici cinquantenni che guidano il mondo, come un Clinton e come un Blair, e che invece riesce solo a raccogliere biasimo internazionale. Stavolta, se va al summit, certo non vuole uscire come il cattivo della situazione, e sa dunque di avere in tasca la possibilità di fare approvare dal suo governo un ritiro molto vicino a quello del piano americano, intorno al 10%: infatti nelle scorse settimane ha costretto Arafat, a forza di ripetergli il concetto di reciprocità, a mettere in galera un buon gruppo di dirigenti di Hamas; pochi giorni or sono ha messo l'inviato americano Ross alla porta, apparentemente senza concessioni. Questo gli ha guadagnato la fiducia di almeno una parte della destra della sua coalizione, quella che prima seguitava a ripetere che comunque l'Autonomia palestinese è complice di Hamas; e che Israele è un Paese senza sovranità nazionale di fronte alle pressioni americane verso le concessioni. Adesso Netanyahu, così come riuscì a restituì- re Hebron e a far votare il processo di pace a larga maggioranza senza far cadere la sua coalizione potrebbe a Londra tentare l'operazione di concedere quel 10% che rende la trattativa possibile. Farà così quello che gli hanno chiesto gli americani, ma spontaneamente, o tuttalpiù perché Blair c'è tornato sopra. Tony Blair, da parte sua, ha giocato e gioca un gioco molto grosso nella sua immagine di statista e di uomo di pace. E gioca su molti tavoli: è evidente il suo accordo preventivo con gli Usa, dato che l'ha dichiarato, e che non scavalcherebbe mai con una proposta sua il gemellino, e capo, Bill Clinton. Ma nello stesso tempo fornisce a Israele la possibilità di guadagnare una buona opinione pubblica e migliori affari presso la Comunità Europea, di cui il Regno Unito occupa in questo momento la presidenza. Israele ha una lunga tradizione di cattivi rapporti con l'Europa, e l'Europa un'interminabile sfilza di tentativi di entrare nel gioco della pace mediorientale. Se Blair prende due piccioni con una fava, forse l'intero mondo mediorientale, che sa benissimo chi è Dennis Ross, ma che non ha la minima idea di chi sia Miguel Moratinos, l'inviato europeo in Medio Oriente, imparerà per la prima volta a sillabare il nome Europa con qualche simpatia. E questo dovrebbe far piacere anche ad Arafat, che ha sempre puntato ad incontri che coinvolgano anche gli europei: non si tratterebbe forse di un coinvolgimento diretto, ma è chiaro che sarebbe Blair a garantire che l'Europa, il maggiore fra i contribuenti in aiuti ai palestinesi e da sempre il continente con l'occhio di maggior riguardo per le loro ragioni, sarà presente, vigile, rappresentato sia pure nell'unico modo accettabile sia per l'America che per Israele. Arafat sa bene che dopo la sua sia pur parziale presa di posizione anti Hamas ha bisogno di una rapida acquisizione politica che dimostri a tutto il popolo palestinese chi è ancora il padrone. E l'America in tutta questa complessa tessitura politica, conserva senza ombra di dubbio il suo ruolo di grande mallevadore: la Albright, se la si farà, resterà la madre della pace, avendo ispirato il viaggio di Blair e avendolo reso il suo messaggero privilegiato. Ma Blair a sua volta non si sarebbe mai messo in un simile ruolo se non fosse sicuro che la luce datagli dal conseguimento della pace con l'Irlanda del Nord gli fornisce un bagliore particolare, che resta suo sempre e comunque, anche se l'America è dietro le sue spalle. Fiamma Nirenstein Bibi preferisce il «gemello» inglese al leader Usa inviso a ultra religiosi e coloni E cerca di entrare nel club dei magnifici cinquantenni che oggi guidano il mondo