Parigi, fra turchi e armeni scocca l'ora del perdono

Parigi, fra turchi e armeni scocca l'ora del perdono DISCUSSIONE Per la prima volta in un incontro pubblico i discendenti delle vittime e dei carnefici I Parigi, fra turchi e armeni scocca l'ora del perdono PARIGI DAL NOSTRO CORRISPONDENTE Il genocidio degli armeni pesa come una sozzura sul mio Paese, la Turchia. E novantanni dopo, mi sento ancora sporca. Da noi, non si usa chiedere perdono. Ma io, fratelli d'Armenia, ve lo domando. La purificazione etnica ottomana sterminò le vostre famiglie. E' dal 1915 che aspettate di sapere perché. Ankara non risponde. La verità ufficiale nega il crimine. Ma io lo confesso anche a nome di chi tace». Parla in armeno Yelda, lei turca di Istanbul dai natali islamici. Un eloquio faticoso, zoppicante. L'emozione paralizza la sala. Poi gli applausi: uno scroscio interminabile, liberatorio. Accorsa per il colloquio «Dalla frattura al dialogo», la diaspora armena che gremisce il Centro Jean Monnet ode incredula tre intellettuali turchi sul podio riconciliarsi con le vittime abbandonando il negazionismo di Stato.' Il più commosso è l'organizzatore, Jean-Claude Kebabdjian. «Questo meeting spezza un tabù riunendo per la prima volta sul genocidio turchi e armeni. Ci parliamo, capisce? Non più accuse incrociate ma sincere ammissioni turche sui massacri». Una vostra iniziativa? «No. Ci sarebbe parso utopico. Sono loro ad aver proposto la tavola rotonda, cogliendoci di sorpresa. E il 23 aprile, vigilia del giorno in cui fiorirono le stragi, lanceremo assieme dalla Germania un organismo che leghi nella dolorosa memoria i due popoli». Dunque è successo. Dopo le prime brecce nell'ideologia dell'establishment turco - registrate dal '95 - la dissidenza osa testimoniare dinanzi agli armeni. Con il pathos (Yelda: reporter e mamma) o la ragione come fa l'editore Ragip Zarakolu. «Il panturchismo condannò a morte la Turchia multiculturale. L'Anatolia era un Paese vivo e prospero» spiega. «Poteva rimanerlo. Con uno sviluppo demografico medio, oggi sareste 10-12 milioni. Muratori, artigiani, popolo di commercio e studio. E invece abbiamo ucciso la nostra ricchezza armena. La tenacia e il genio di chi sopravvisse agli eccidi oggi arricchisce l'Europa e gli Stati Uniti. Ma da noi il vostro esodo lascia solo vergogna e arretratezza». Un autogenocidio, insomma. Che fece nondimeno storia at- traverso gli emuli successivi: pangermanesimo nazista e Grande Serbia. Adolf Hitler non pronunciò forse nel 1939 le fatidiche parole: «Chi si ricorda, ormai, dello sterminio armeno?». Ben vengano allora i «revisionisti» Yelda, Zarakolu e Taner Akcam (scrittore e sociologo) per riscrivere il dramma con le vittime e non in chiave autoassolutoria. L'iniziativa è preziosa. A chi l'osteggia, si può ricordare che inizialmente la Turchia riconobbe le uccisioni di massa. Ma poi, dal 1931 il kemalismo dogmatizzò gli anni bui. Con l'impero ottomano a pezzi, Paesi limitrofi ostili e un'Europa che si accusava di voler smantellare per bramosie territoriali, odio religioso e razzismo il nuovo regime, prevalse la reticenza. «Un marchio infamante» la definisce Zarakolu. «Il genocidio armeno - osserva creò un mostro che ha tendenza a riprodursi ingenerando nuovi nemici. Dapprima colpirono il cristianesimo. Armeni, caldei, siriaci. E poi, inorgogliti dal successo che l'assenza di rappresaglie europee ben testimonia, proseguirono con i correligionari curdi. Il 1915-16 fu, in definitiva, una "prova generale". Le cronache dimostrano come la sindrome persecutoria continui oltre mezzo secolo più tardi. Purtroppo. Ci facciamo ossessionare dal "nemico interno" evitando con scrupolo di guardarci allo specchio». «La sofferenza si può condividere» propone Akcam. «La barbarie turca tenne a battesimo i crimini contro l'umanità del Novecento. Ma non ne abbiamo coscienza. Un oblio patologico. La malattia nazionale si chiama frontiere. Cerchiamo sicurezza e stabilità, con il perenne incubo che le minoranze facciano implodere il Paese. Non nego che la politica occidentale tra il ' 18 e il '25 fu rovinosa per la Turchia. Ritengo le grandi potenze corresponsabili. Ma è ora di non farne più un alibi». La questione imbarazza an che la Sinistra. Ammetterebbe le colpe di un regime che riven dica la continuità tra la Turchia in versione Kemal Atatùrk (non rinnegando l'ultranazionalismo cui si abbandonarono Giovani Turchi nell'Ittihad) e quella '98, però il tema «indennizzi» le suggerisce il silenzio Riconoscere una colpa può implicare conseguenze patrimoniali. «Ma non bisogna fermarsi» dice Ragip Zarakolu. «La di scussione sull'oro nazista nei caveaux elvetici potrebbe incoraggiarci. Parliamone». E se i pronipoti dei profughi volesse ro tornarci a vivere, in Turchia? «L'eventuale controesodo è lo spauracchio cui ricorre il sistema. La definirei un'osses sione paranoica. Agli emigrati preme la giustizia, non espro priare i turchi. Ma è necessario mostrarsi diponibili. Devono essere i benvenuti. La Turchia è casa loro. Madrid ha infine riconosciuto ai "marrani", gli ebrei espulsi nel tardo Medio Evo, la chance di reintegrarsi in Spagna. Che Ankara la segua per gli armeni. Senza attendere, se possibile, mezzo millennio». Enrico Benedetto Non più accuse incrociate, ma sincere ammissioni sulle colpe di Ankara «La prova generale dei genocidi del Novecento» Una manifestazione di armeni in Russia nel 1988: da più di 80 anni attendono giustizia [FOTO GRAZIA NERI) Nella foto sopra Mustafà Kemal Atatùrk. Inizialmente la Turchia riconobbe i massacri perpetrati ai danni degli armeni, ma dal 1931 il kemalismo impose la reticenza