VALCHIUSELLA

VALCHIUSELLA VALCHIUSELLA «Dove sarà il gigantesco alpino che mi salvò dal treno nel '40?» LETTERA da Meugliano, piccolo paese della Val Chiusella. Scrive Bernardo Bovis, pensionato, telefono 0125/74.254. «Ogni volta che passo dalla stazione di Porta Susa il mio pensiero è portato a rivivere un lontano episodio che mi ebbe protagonista da ragazzo, in un caldo pomeriggio del giugno 1940, e che si svolse tra i binari della stazione. Ero allora ospite di un collegio cittadino che in seguito ai primi bombardamenti aveva chiuso. Così eccomi avviato a piedi verso la stazione, trascinando la povera valigia di cartone coi miei pochi effetti personali, per prendere il treno per Ivrea, da dove, con la corriera, avrei potuto proseguire per il mio villaggio. A fatica aprendomi un varco nella calca, riuscii a raggiungere un treno della linea Torino-Aosta che stava per partire. Ma mi fu impossibile entrare tanto era sovraccarico, per cui non potei fare altro che salire sul predellino, restando in equilibrio precario, aggrappato con una mano- alla maniglia dello sportello e con l'altra che teneva ben stretto il manico della valigia penzolante nel vuoto. Intanto il treno si era messo in moto. Ricordo numerose facce che mi fissavano attraverso i finestrini e una voce che di tra la folla formicolante sulla banchina si alzò verso di me in tono allarmato: «Cosa fai benedetto ragazzo, ti ha dato di volta il cervello?». Ma ditemi voi, sfrattato dal collegio chiuso e senza nessuno che mi aiutasse a entrare nel convoglio dove i corpi si pigiavano cos'altro potevo fare? Mentre il treno acquistava velocità io badavo a mantenere ben salda la presa della mano stretta ad artiglio sulla maniglia, e a controllare che la valigia, sballottolata qua e là non mi sfuggisse dall'altra. In quei difficili frangenti forse rivolsi una preghiera al mio angelo custode, se la memoria non m'inganna. Comunque sia che l'abbia invocato oppure no, il mio invisibile custode dovette decidere di venire in mio soccorso evidentemente impietosito alla vista di quel ragazzino mingherlino di 12 anni che affidava la sua povera vita e la sua povera valigia al sostegno precario di una mano avvinghiata a una maniglia su cui gravava oltre al peso della sua persona accresciuto dalla forza centrifuga provocata dal treno in corsa, anche la notevole forza di gravità resa maggiore dalla valigia oscillante nel vuoto. Fu a quel punto che mi accorsi che il vetro del finestrino dello scompartimento più vicino veniva abbassato e che una gigantesca figura di alpino si sporgeva verso di me con le braccia protese. In men che non si dica mi sentii afferrato per la collottola da due mani che mi apparvero enormi, mentre colui al quale appartenevano mi gridava: «Molla la presa ragazzo». E un istante dopo mi trovai all'interno del vagone, catapultato ai piedi del mio soccorritore con la mia valigia tra le braccia a guardare in su verso l'omone che, dopo avermi cavato dagli impicci, mi aveva procurato un posticino fra le sue gambe divaricate. Lo ricordo spesso, il caro alpino che il mio buon angelo aveva fatto intervenire in aiuto. Era alto, i capelli color castano chiaro, tendenti al biondo, il volto scurito dal sole. Ma quel che rammento soprattutto di lui sono le grandi mani con cui mi aveva tratto da una situazione che dopo poco sarebbe diventata insostenibile, e i suoi occhi che ogni tanto mi fissavano in modo rassicurante e protettivo, mentre troneggiava su di me, come le montagne che circondano la mia piccola valle incombono sulle case dei villaggi. Avrà avuto poco più di 20 anni e avrebbe potuto essere un fratello maggiore. Certamente si comportò come lo fosse. Quando scesi a Ivrea, ricordo che egli restò sul treno dal quale mi inviò un sorriso di saluto. Era diretto ad Aosta? Timido com'ero allora temo di non averlo nemmeno debitamente ringraziato. Ignoro persino il suo nome, e mi sono chiesto tante volte se la guerra lo abbia risparmiato, come il mio cuore si augurava con tutte le forze. Quante volte l'ho rivisto in sogno; e anche ora che sono vecchio ripenso spesso a lui, quando rievoco le vicende che segnarono la mia difficile adolescenza, a quel giovane figlio delle nostre montagne che mi era apparso così simile al Rico del «Piccolo Alpino» di Salvator Gotta, libro a quel tempo tanto caro ai ragazzi. Mi auguro di cuore che il destino con lui sia stato generoso come lui fu con me, e che quel suo corpo così aitante e pieno di vita, non sia finito come tanti altri a nutrire col suo sangue i cespugli di fiori scoccianti ad ogni primavera nelle steppe che hanno inghiottito tante giovani vite. Se sei ancora vivo, il che sarebbe per me fonte di immensa gioia, forse ti ricorderai di me, dello smilzo ragazzino, spaurito che, tu, nella generale mdifferenza cavasti dai pasticci in un pomeriggio di giugno del '40, mentre i tamburi di guerra percorrevano l'Europa. Io adesso ho 70 anni. Se tu sei ancora fra i vivi non dovresti averne più di 80, al massimo 85. Comunque grazie, mio carissimo alpino dovunque tu sia, e se sei ancora in grado di leggere queste mie parole e ti riconosci in ciò che ho scritto ti prego, fatti vivo col ragazzino di allora che non ti ha mai dimenticato». Bovis, in piedi sulla destra

Persone citate: Bernardo Bovis, Bovis, Salvator Gotta

Luoghi citati: Aosta, Europa, Ivrea, Meugliano