L'ultima vìttima della Uno bianca

L'ultima vìttima della Uno bianca I suoi tre figli sono stati condannati per sette anni di assalti e rapine nella Romagna, con 25 morti e 100 feriti L'ultima vìttima della Uno bianca Suicidai! padre dei Savi: «Troppo disonore» RIMIMI DAL NOSTRO INVIATO La sua macchina era il simbolo di questa tragedia. Era una Uno bianca. Era tenuta bene. Aveva solo una striscia leggera sul fianco sinistro. Era pulita come se fosse nuova, la sua macchina: l'avrà lavata con una pompa d'acqua anche prima d'andarsene. Una volta, un vicino gli chiese: «Ma dopo quello che t'hanno fatto i tuoi figli, perché non cambi la macchina?». Rispose con la sua parlata da contadino romagnolo: «Perché non ciò i soldi, perché». S'è ucciso lì dentro, nella Uno bianca, sette scatole di Tavor svuotate, dieci mozziconi di sigarette sul tappetino, una bottiglia d'acqua minerale vuota, il capo reclinato sulla spalliera di destra, il finestrino abbassato di 10 centimetri. Otto foglietti per salutare il mondo. Il primo diceva: «Ore 20. La morte si avvicina». E' arrivata 4 ore dopo, strozzandole sue ultime frasi: «Ho perso la mia dignità, non ho più voglia di vivere». I suoi tre figli erano i banditi della Uno bianca: Roberto, Fabio e Alberto. Sette anni di assalti e rapine, 25 morti e più di cento feriti. Dall'altro ieri, 26 morti. Due dei suoi figli erano poliziotti, Fabio faceva il rappresentante. Lui era il padre padrone. Giuliano Savi, 72 anni, da Verucchio, Rimini. Quand'era un uomo febee portava i figli a sparare. Era la sua passione, l'ha trasmessa ai figli. Adesso che gli avevano pure sequestrato le armi che teneva in casa, piangeva di rabbia. Il suo sogno era che i figli facessero i poliziotti. Ce la fece. Raccontò che «era l'onore più grande della mia vita vederli in divisa». L'ultima vittima della Uno bianca non poteva essere che lui, ucciso in fondo come tanti uomini, proprio per mano del suo sogno e della sua passione. E' la scrittura irriverente del destino. Giuliano Savi ha lasciato il mondo a 30 metri da casa. «La Uno bianca appoggiata a un cancello in retromarcia», come hanno scritto sul verbale riassumendo la sua vita in quattro paginette redatte dalla pattuglia dei carabinieri. Addì 29 marzo 1998. Ma il suo tempo s'era chiuso prima, e dev'essere per questo che la casa colonica in via Molino bianco a Villa Verucchio sembra l'unica cosa che non è cambiata del paese. Hanno costruito tanto, pare tutto così diverso da 4 anni fa. La villetta dei Savi ora ha le finestre oscurate da pesanti tendoni. Nove paia di calze da uomo stese al sole, un vaso di fiori appena riempito di terra fresca, gli attrezzi da giardinaggio ordinatamente riposti nella rimessa. C'è ancora quel cartello che ci aveva scandalizzato: «Attenti al cane e al padrone», con il disegno di una mano che tiene la pistola. Ce n'è un altro più in là, nel- l'orto, appeso a un alberello: «Pericolo. Terreno avvelenato». C'era tutto questo 4 anni fa quando il destino irruppe in questa casa presentando il suo conto da pagare. «Io so che il 22 sera ho guardato la televisione e ho appreso per la prima volta che avevo figli accusati di essere dei mostri. Sono entrato in un incubo all'improvviso». Confessò anche Alberto, che «era il più bravo, era rimasto un bambino, lo chiamavo burdèb. Da allora, la sua vita è diventata una lunga processione di vergogna. Sua moglie, Renata Carabini, 70 anni, crollò nel Natale del '96: un ictus cerebrale, e la sedia a rotelle. Don Nicola le portava l'eucarestia a casa tutte le domeniche: «Il marito salutava, ma non si fermava a parlare molto. Stava seduto un po' in disparte. Forse si vergognava». Anna Maria Raspugli, un'amica: «Lui andava a fare la spesa oppure stava nell'orto. Sempre solo, sempre in silenzio». E Cenni, quello dove andava a comprare il pane: «Camminava rasente ai muri, pro¬ strato, un po' ingobbito, come se volesse nascondersi». Luisa Merighi, l'antiquaria: «Più disperati di così si muore». A volte, le parole sono crudeli come la verità. Giuliano Savi è proprio morto di disperazione. Tirava la sua vita di lupo ferito senza guardare in faccia nessuno. Riceveva le visite delle nuore, Antonella e Maria Grazia, come un vecchio patriarca. Andava a portar le uova dal vicino facendosi accompagnare dal nipote. Diceva: «Sono stati degli stupidi. Almeno l'avesse¬ ro fatto per i soldi. Invece, hanno ammazzato tutta quella gente e non hanno una lira in banca nemmeno per comprarsi le lamette da barba». Poi prendeva la sua Uno bianca e andava in giro con il suo destino. Di solito, rientrava a casa alle 7 di sera. Domenica, invece, non l'ha fatto, e la signora Renata ha cominciato subito ad allarmarsi. La Uno bianca era appoggiata a un cancello lì vicino. S'era comprato 8 scatole di Tavor e una bottiglia d'acqua. Ne ha consumate 7. Alle 20 ha scritto il primo biglietto. Scriveva ingurgitando le pastiglie, «quasi una narrazione della sua morte», hanno detto gli inquirenti. Con il passare delle ore, la scrittura abbastanza compatta diventa via via più sconnessa. Quattro, cinque righe per foglio, con lettere molto grandi. Alle 22 avrebbe cominciato a perdere conoscenza. C'è un biglietto pieno di insulti per il magistrato che fece arrestare i suoi figli: «Non mi ha dato la dignità di uomo». Ce n'è un altro in cui si rivolge ah'avvocato Enzo Piccolo che difende Alberto e gli dice «fai il possibile per lui, è il più piccolo e il più buono». Poi saluta i nipoti e una coppia di amici: «Io muoio, voi divertitevi». Qualche giorno fa aveva ripetuto a un vicino di casa: «Se avessi saputo li avrei uccisi con le mie mani». Ma nell'ora della morte, il padre ritrova solo l'amore per i figli suoi. Non c'è mai una richiesta di perdono per quello che hanno fatto, per le vittime che hanno lasciato sulla loro strada. Un altro biglietto: «Perdonate per quello che sto facendo, ma non è colpa mia». E a sua moglie, la signora Renata che sta in carrozzella, scrive: «Lei riuscirà a cavarsela anche senza di me». Il padre che è morto si è portato via la pietà. Dei tre figli, solo Fabio ha chiesto di venire ai funerali. Eva Mikula ha detto: «Mi dispiace molto». Alberto ha abbassato il capo senza parole. La mamma Renata invece non ha avuto neanche bisogno che glielo dicessero. L'aveva già capito. Lui lo ripeteva in casa, nei momenti di sconforto. Diceva: «Io senza le armi adesso che sto fare al mondo? Io sono cresciuto con quelle». Ora mamma Renata è nel primo letto a due posti della stanza numero 88, quarto piano della clinica Villa Maria, a Rimini. Ci sono i parenti che vengono a portarle i fiori. Ci sono anche tanti giornalisti e lei ha sbottato: «Non ce la faccio più. Questo Giuliano non doveva farmelo». Se una cosa la sua vita gliel'ha insegnata, forse è troppo tardi. Mai andare in rotta di collisione con il destino. La sua sedia a rotelle fuori dalla porta. «Niente visite», dice il biglietto. Mamma Renata sta pregando. Pierangelo Sapegno Seduto in auto, si è tolto la vita coi sonniferi: aspettando la morte ha scritto una serie di messaggi «Ho perso la dignità», ma non chiede perdono alle vittime dei suoi ragazzi Eva Mikula: «Mi dispiace molto» Da sinistra Roberto Savi colpevole con i fratelli Fabio e Alberto degli omicidi della «Uno bianca» Eva Mikula e Giuliano Savi il padre dei tre banditi

Luoghi citati: Rimini, Romagna, Verucchio