Artù e la Tavola rotonda ecco democrazia

Artù e la Tavola rotonda ecco democrazia La rivincita di Jean Markale: un lancio imponente in Italia dopo la tenace esclusione editoriale Artù e la Tavola rotonda ecco democrazia MILANO DAL NOSTRO INVIATO Il suo primo libro è del '69, e fu anche il suo primo successo. Uno studio su Roma e l'epopea celtica, insomma sulla calata di Brenno, gli dette la fama dopo anni in cui il suo amore per l'eredità celtica era stato visto come politicamente assai poco corretto, in fondo una faccenda che puzzava di destra anche se lui era stato tra i firmatari contro la guerra in Algeria. Così Jean Markale, quasi per un paradosso delle storia, è stato «liberato» proprio dal '68, dall'interesse che fiorì in Francia per le tradizioni regionali, persino dal femminismo. Il suo lavoro sui miti, e soprattutto su quella grande galassia di avventure che si addensa intorno al nome di Artù e al tema della ricerca del Graal, venne non solo accettato ma circondato da un favore sempre crescente in Francia, e in molti altri Paesi: ad eccezione dell'Italia dove sbarca soltanto ora, quasi in contemporanea con le sue prime traduzioni giapponesi. La Sonzogno lancia sul mercato, col titolo generale II mistero del Graal, otto sue opere, a distanza rawicinatissima l'una dall'altra, con tirature e prezzi da mercato di massa. E lui, inagrissimo, ironico e ieratico, con due ah di capelli bianchi intorno a un viso affilato che lo fa somigliare al suo personaggio preferito, il mago Merlino, si gode filosoficamente la piccola «rivincita» postuma su tante diffidenze passate. «In fondo - dice - il mito del Graal è universale». Markale si diverte a leggere nel mondo celtico un presagio di democrazia. Le regine e le dame che sanno scendere se necessario in combattimento (e gli storici romani le descrivono come anche più terribili dei maschi) sono libere e indipendenti, soprattutto nella vita amorosa. «Il re celtico è necessariamente cornuto - scherza proprio a cominciare da Artù, che addirittura nel Lancillotto in prosa, una delle versioni più cristianizzate della leggenda, dice a Ginevra di fare di tutto perché Lancillotto rimanga a corte. Di tutto...». Ma il lungo lavoro di Markale (a proposito, è uno pseudonimo, scelto a dodici anni) non è affatto scherzoso. E le conclusioni sono serissime: «L'eredità più importante del mondo celtico è l'idea di democrazia, rappresentata bene dalla Tavola Rotonda dei cavalieri del Graal, dove la responsabilità di ognuno è sem-. pre individuale e collettiva». E a dargli ragione ci sono le «tavole rotonde» fiorite nell'Europa che si liberava del comunismo, anche se Markale non guarda alla politica, o all'ideologia. Lui semplicemente racconta, tendendo uh filo attraverso la sterminata e contraddittoria «materia di Bretagna», cercando un ordine narrativo. I precedenti sono pochi e, secondo Markale, insoddisfacenti. E quando gli si chiede se non ritenga una forma di violenza questo tentativo di costringere un vasto universo immaginativo in un ordine coerente, risponde con un (finto) stupore che i primi scrittori a cimentarsi con quel mito nel XII secolo, come Chrétien de Troves, fecero altrettanto. Ogni volta che lo si racconta, il mito,.magari impercettibilmente, cambia. Si sviluppa. Vive. Il mito di Artù e della tavola rotonda, poi, vive da molto prima che qualcuno lo abbia messo su cartr. Dal Galles, dopo la conquista normanna della Britannia, migrò verso Sud attraverso i trovatori armoricani, che fungevano da «interpreti» e traduttori, e rapidissimamente arrivò in Provenza, nel Nord Italia, in Germania. Come ricorda Roberto Cotroneo nel suo romanzo Otranto, c'è già re Artù nel mosaico pavimentale della città pugliese, in una data anteriore persino alla «Historia Regum Britanniae» di Goffredo di Montmouth, che la rese celebre fra gli eruditi di tutta Europa. Il ciclo arturiano e la saga del Graal rappresentano il grande lascito che gli antichi popoli celti, diffusi in tutta Europa prima di essere quasi tutti «romanizzati», hanno destinato al¬ la nostra civiltà, attraverso una tradizione orale che si è incontrata col cristianesimo e si è addensata intorno al nome fatato di un personaggio che può aver avuto esistenza storica nel V secolo. Markale è fra quanti propendono per questa tesi, e cioè che sia esistito davvero un Artù, in Galles, non come re ma come capitano di guerrieri, «duxbellorum». Neil'avallare questa suggestione, contro quella opposta secondo cui non c'è alcun Artù storico documentabile, sottolinea ironicamente come il suo personaggio «reale», prima del mito, somiglierebbe più a un centurione romano che a un ca¬ po celta. A testimonianza di una continuità fra la cultura dei romani e quella di un popolo da essi assoggettato ma tuttavia mai completamente assorbito, almeno nelle isole britanniche. Markale cita un grande studioso come Georges Dumézil: «I romani pensavano storicamente, i celti miticamente». E noi, che siamo in quanto europei eredi di entrambi? Lo scrittore non ha dubbi: «L'Europa ora deve pensare miticamente. Nel senso dei miti fondatori. Se non la costruiamo su un mito essenziale, non funzionerà mai». Mario Baudino Studioso dei Celti fu considerato a lungo di destra Ma, per paradosso, fu il '68 a «liberarlo» «Oggi l'Europa deve tornare ai miti Se non la costruiamo su un mito essenziale, non funzionerà mai» Qui accanto Georges Dumézil e, a destra Jean Markale di cui l'editore Sonzogno pubblica otto opere col titolo generale «Il mistero ' del Graal»