KRISTOF, FAVOLE NERE SULL'ORLO DEL SUICIDIO di Luigi Forte

KRISTOF, FAVOLE NERE SULL'ORLO DEL SUICIDIO KRISTOF, FAVOLE NERE SULL'ORLO DEL SUICIDIO TRILOGIA DELLA CITTA' DI K Agota Kristof trad.: A. Marchi, V. Ripa di Meana, G. Bogliolo Einaudi pp. 379, L 32.000 GOTA Kristof scrive i suoi romanzi nella lingua dell' esilio. Sono storie estreme nei gironi infernali della vita. Storie di lucida follia in una prosa stringata e ischeletrita da un dialogo perenne, che s'abbarbicano all'Ungheria dei suoi primi vent'anni. Poi ci fu la rivoluzione fallita del '56 e lei se ne andò lontano con il marito. Dapprima in Austria e poi in Svizzera, a Neuchàtel. Lunghi anni in cui Agota ha iniziato a declinare in francese infanzia e adolescenza, anni in cui la patria ha smarrito il suo volto e s'è acquattata in un paesaggio senza nome, in zone di frontiera, in sbiadite contrade percosse dal vento di un nuovo idioma. E' la geografia volutamente imprecisa dei suoi romanzi ambientati in un generico Paese dell'Est, tra guerra, dittatura e rassegnata libertà. Dopo Ieri, proposto con successo nel 1996, Einaudi presenta ora la Trilogia della città di K., un trittico arricchito dell'ultima parte, La terza menzogna, nell'ottima versione di Giovanni Bogliolo (i primi due romanzi, Quello che resta e La prova era Quello che resta e La prova, erano già usciti da Guanda nella seconda metà degli Anni Ottanta). Qui la memoria pare nutrirsi di anonimato e la Storia ritrarsi nella minuta, ossessiva evoluzione delle vicende umane. La Kristof traduce i grandi terremoti dell'Europa, bombardamenti, deportazioni, paranoie dittatoriali, in una favola nera. La racconta dai margini dell'esistenza, dietro lo scorrere del tempo, tra la Grande e la Piccola Città, una fottuta frontiera e l'altro paese. La mette in bocca a figure anomale, nel corpo e nell'anima, ma incredibilmente vigili e astute. Come i due gemelli Lucas e Klaus, che la madre lascia da una nonna megera, una mezza strega avara e sudicia pronta ad iniziarli ad una vita di dura sopravvivenza. Ma i due non sono ragazzi come altri, sono mostri d'intelligenza, di abilità manuale, d'astuzia. Vivono nel luridume, tra animali e cianfrusaglie, in una casa fatiscente. Setacciano la realtà che li circonda, la scompigliano, la preparano ai propri scopi. Si addestrano al dolore e all'insensibilità. Soffocano ogni sentimento per sconfiggere l'esistenza. I fantasmi di un mondo adulto e violento sono scesi nelle loro anime, e nulla può ormai colpirli. Viene in mente la figura del piccolo Matzerath nel Tamburo di latta di Gùnter Grass. Forse per quel tanto di surreale e picaresco che anche i gemelli suggeriscono. Per quel sentore di grottesco, che avvolge il loro mondo. Ma qui c'è un'inesorabilità che nemmeno Grass sapeva concepire, perché la realtà non è più spettacolo per le scorribande della fantasia. La realtà è incatenata ad un linguaggio che ha l'andatura di una marionetta omicida, come scrisse una volta Giorgio Manganelli, grande ammiratore della Kristof. Così il rigore realistico ha il ticchettio d'un meccanismo pronto a deflagrare sotto gli impulsi del destino e i minuti scorrono raccogliendo intorno dolore e smarrimento. L'intenso e furfantesco sodalizio di Klaus e Lucas finisce sul cadavere del loro padre che una mina ha ridotto a brandelli mentre tentava di passare la frontiera. Di là, nel Paese oltre cortina, finisce Klaus. Suo fratello annota d'ora in poi la propria vita e attende. Ma l'epica unità dei due gemelli è destinata a frantumarsi in mille prospettive: la terza parte della trilogia è un girotondo di situazioni ormai familiari al lettore che si aggrovigliano e rifrangono senza che alcuna verità possa riemergere. Gli stessi gemelli, ormai adulti, si confondono in sequenze dove il tempo tramuta ogni possibile verosimiglianza narrativa in un gioco incoerente fra passato e presente, in una vischiosa scia di menzogne. La Kristof imbroglia i fili della speranza: non c'è sviluppo lineare nelle sue storie e nelle sue figure, ma una meccanica corsa verso il baratro, l'obnubilamento, l'autodistruzione. Qui si muore, squarciati come la giovane Labbro-leporino o la madre dei gemelli con la sua piccola bambina. Penzoleranno i loro scheletri lungo le pagine del libro, icone d'una grottesca disperazione che i figli accudiscono con affetto soffocato. Si muore suicidi come Clara e il piccolo Mathias, e gli stessi gemelli. Agota Kristof ha scelto di mostrare la disumanità nella lenta usura di spezzoni e maschere umane. Non scavando nei meccanismi della Storia e del Potere, ma scorgendone le tracce sui volti sfigurati della gente. E parla per bocca di Klaus: «... la vita è di un'inutilità totale, è nonsenso, aberrazione, sofferenza infinita, invenzione di un NonDio di una malvagità che supera l'immaginazione». A plasmarla nella lingua dell'esilio può sembrare forse meno greve e più lontana; ma purtroppo svuotata per sempre di ogni antica tenerezza. Luigi Forte Agota Kristof, esule ungherese: un trittico scritto in francese TRILOGIA DELLA CITTA' DI K Agota Kristof trad.: A. Marchi, V. Ripa di Meana, G. Bogliolo Einaudi pp. 379, L 32.000

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