NON CI SERVONO TRADUTTORI A STIPENDIO FISSO

NON CI SERVONO TRADUTTORI A STIPENDIO FISSOPartiamone NON CI SERVONO TRADUTTORI A STIPENDIO F "il futuri traduttori di Balzac, I i Kafka, Anais Nin, Christa I jWolf, Pessoa e Musil, saI ranno dei Renato Mucci e AJ degli Erano Pocar, delle Dell'ina Vezzoli e Anita Raja, dei Tabucchi e dei Magris o, con tanto di brevetto universitario, degli «stipendiati» come, appellandosi a Veltroni, Magda Olivetti ha proposto in un recente convegno? (vedi La Stampa del 28/2). Di formazione e statuto professionale; di adeguamento dei compensi da lame e dei contratti capestro si discute da tempo e chissà che qualcosa cambi davvero. Ma con quali risultati? Mentre le istituzioni - presidenza del Consiglio, direzione Relazioni culturali e Ufficio Editoria dei Beni Culturali - sembrano sempre più disposti agli incentivi, dalle Università (Trieste, Forlì, Torino) escono i primi dottori in «traduzione con applicazioni pratiche», e da Treviso a Giarre, sono anche spuntati analoghi corsi. E il Collegio dei traduttori annunciato dal Grinzane Cavour non pare destinato a rimanere isolato. Ben vengano corsi e iniziative. Ma insegnare «traduttologia», se può aiutare la formazione di un buon traduttore non l'esaurisce e tanto meno assicura la bontà di una traduzione letteraria. Per realizzare quella che per Goethe restava «una delle imprese più importanti e meritevoli tra gli avvenimenti del mondo» e che per Croce era «il poetare di un' antica in una nuova anima» occorre ima specie di soffio vitale di Pigmalione. Non credo che a possederlo e a saperlo insufflare s'impari a scuola. Si acquista comunicando con l'autore se è vivo; altrimenti, si conquista sul campo e s'irrobustisce spaziando con iirequieta passione, ma pure pazienza, in aree definite, privilegiando le famiglie di scrittori con cui scatta il feeling o di cui si conoscono così bene l'opera, i contesti e i risvolti segreti, da saperne restituire toni di voce, ritmi e stile. A quantificare questo lavoro in termini retributivi, il buon traduttore sarà comunque in perdita rispetto ad altre categorie. Ricorrere allo stipendio dello Stato non mi pare una soluzione, soprattutto se si realizzasse come un impiego fisso, da svolgersi negli àmbiti più disparati e senza verifiche di produzione. E poi, chi saranno i maestri? Specialisti di autori e aree d'affezione, ingaggiati per aprire il loro laboratorio agli studenti o ricercatori e neolaureati di questi nuovi corsi? Se per gli incarichi di docenza che in breve si trasformerebbero in cattedre vigesse non il criterio del merito ma la solita cooptazione, secondo le fruste logiche accademiche, cosa aspettarsi? Dalle scuole potraimo, nel migliore dei casi, uscire ottimi traduttori e interpreti, ma per la letteratura occorrono artisti e artigiani, happy few, professionisti più protetti non da qualche sindacalizzazione, ma da finanziamenti su progetti specifici e da una maggiore correttezza e attenzione da parte degli editori. Non dovrebbe capitare che mi cambio della guardia di un editor interrompa un rapporto consolidato e neppure che il passaggio dei diritti ad altro editore penalizzi un buon traduttore. E non dovrebbero scomparire interlocutori rigorosi, colti e disponibili: come il Guido Neri della Einaudi di venticinque anni fa, che a me ha fatto da maestro martirizzando le prime cinquanta cartelle della mia traduzione di Locus solus. Paola Decina Lombardi

Luoghi citati: Forlì, Giarre, Grinzane Cavour, Torino, Treviso, Trieste