Allarme rosso nei Balcani di Andrea Di Robilant

Allarme rosso nei Balcani Allarme rosso nei Balcani Washington teme il crollo della pace WASHINGTON DAL NOSTRO CORRISPONDENTE Alla Casa Bianca e al dipartimento di Stato l'allarme scatta subito. L'inviato americano Robert Gelbard, richiamato d'urgenza a Washington, rilascia proclami di fuoco contro Slobodan Milosevic, minaccia nuove sanzioni e non esclude un intervento militare per evitare che l'incendio divampi. Ci sono voluti anni per coinvolgere questa amministrazione nei Balcani, ma sin dall'inizio la preoccupazione di Washington per il Kosovo, crocevia tra il mondo slavo e musulmano, è stata altissima. E adesso che la crisi così a lungo temuta tra Serbia e Kosovo è finalmente scoppiata - con l'uccisione di 24 albanesi da parte delle truppe serbe lo scorso fine settimana - il governo americano corre ai ripari. Ma forse troppo tardi. La preoccupazione più immediata è che se la crisi non sarà bloccata subito, l'intero edificio ideato a Dayton e pazientemente costruito negli ultimi due anni in Bosnia rischia di andare in fumo (Richard Holbrooke, l'artefice degli Accordi di Dayton, ha lasciato da parte il problema cipriota per rit.uffarsi in queste ore nella politica balcanica). «Abbiamo fatto uno sforzo imponente in Bosnia, siamo ormai vicini al traguardo e nessuno sopporta l'idea di veder crollare tutto a causa di quel che succede in Kosovo», dicono al dipartimento di Stato. Ma non si tratta solo di salvare la pace di Dayton. L'am¬ ministrazione Clinton ha sempre avuto paura che una rivolta degli albanesi del Kosovo contro la minoranza serba avrebbe fatto dilagare il conflitto in Macedonia, dove vive un grossa minoranza albanese, e in Albania, con un effetto domino imprevedibile e incontrollabile. Prim'ancora che si cominciasse a parlare di Dayton, quando l'amministrazione ancora si rifiutava di mandare soldati in Bosnia, cinquecento caschi blu americani furono dispiegati in Macedonia. E da Skopje gli Stati Uniti controllavano la situazione anche nel Kosovo. Ufficialmente, Washington ha sempre detto che qualsiasi tentativo di Milosevic di estendere il conflitto nel Kosovo sarebbe stato contrastato con la forza. Ma l'amministrazione non ha mai caldeggiato una vera autonomia del Kosovo rispetto alla Serbia. Il risultato, dicono alcuni diplomatici, è stata una politica non sempre limpida da parte dell'amministrazione. In pubblico prometteva un intervento militare in difesa del Kosovo, ma dietro le quinte faceva capire a Milosevic che sarebbe rimasto padrone a Pristina se fosse riuscito a tenere la situazione sotto controllo. E non sono in pochi a Washington, sia al Congresso che negli ambienti diplomatici, a pensare che la mancata chiarezza dell'amministrazione ab- bia finito per incoraggiare Milosevic a fare il passo troppo lungo, e a creare le premesse per l'esplosione delle violenze dei giorni scorsi. Negli ultimi mesi la radicalizzazione del conflitto tra maggioranza albanese e minoranza serba e la crescita dell'esercito di liberazione del Kosovo (Kla) ha finito per accentuare l'aspetto contraddittorio della politica Usa nel Kosovo. E alcuni osservatori sono convinti che quando la settimana scorsa l'ambasciatore Gelbard accusò il Kla di essere «un'organizzazione terrorista», Milosevic e i suoi abbiano interpretato quelle parole come un via libera americano ad una repressione dura della rivolta. «L'amministrazione sapeva da un mese che Milosevic aveva spostato truppe nel Kosovo, eppure non ha fatto nulla per bloccare Belgrado», dice un ex diplomatico che si occupava dei Balcani al dipartimento di Stato prima di andarsene per protesta. «Ora è troppo tardi. Ed è quasi certo che per evitare un nuovo conflitto bisognerà intervenire con truppe della Nato in Kosovo. Sembra di essere tornati al 1991, quando James Baker andò da Milosevic e disse che la cosa importante era tenere il Paese unito. Anche in quell'occasione Milosevic interpretò l'atteggiamento americano come un via libera». Andrea di Robilant