IL CLASSICO

IL CLASSICO IL CLASSICO di Alessandro Fo DOPO una gloriosa carriera che lo condusse ad essere il primo retore «di Stato», cioè retribuito dal fìscus imperiale, Marco Fabio Quintiliano (circa 35-100 d.C.) consegnò il tesoro di vent'anni d'esperienza forense e didattica a un ponderoso manuale, ì'Institutio oratoria, pubblicato prima della morte di Domiziano (96), dei cui augusti eredi era stato maestro. Ne offrono traduzione annotata Stefano Corsi (libri l-VI) e Cesare Marco Calcante (libri VII-XII): La formazione dell'oratore (intr. di Michael Winterbottom, RizzoliBur, 3 voli, L. 20.000 l'uno). Ancora una volta è da salutare con lode la proposizione in economica di un monumento così impegnativo e storicamente significativo. Quintiliano scrive dopo che l'epoca giulio-claudia aveva registrato i fasti del cosiddetto modernismo, con la sua dizione tutta effetti, nata nelle scuole di declamazione, non senza autentiche follie anche di vita, immortalate nella impagabile galleria di Oratori e retori stilata da Seneca il Vecchio (4 voli. Zanichelli 1986-88). Ispirato a sobrietà e senso pratico, Quintiliano propone un suo ritorno al classicismo, sbilanciato però in direzione di qualche concessione al nuovo gusto. Fra gli antichi modelli (perfettibili) e i più recenti (moderabili) corre una sensata via media, orientata alla grande meta ideale: l'oratore eroico-umanistico, scolpito in un bronzo ciceroniano, «dono accordato all'umanità quale non è stato mai conosciuto in passato, unico e perfetto sotto ogni aspetto, ottimo per i suoi sentimenti e per la sua eloquenza» (XII1,25: p. 1959). Con marcata innovazione, Quintiliano struttura il trattato sulla parabola della sua epifania, dalla nascita al «pensionamento». Efficace il succinto saggio introduttivo di M. Winterbottom, mentre un solo indice a fine voi. Ili non aiuta molto a orientarsi all'interno dell'esteso manuale. Perlomeno bizzarra è l'idea di consegnare a una errata corrige nel I volume sia correzioni di refusi e aggiustamenti del testo riprodotto (quello di J. Cousin, Paris, Les Belles Lettres 1975-80), sia le eventuali lezioni discrepanti, solo qua e là discusse anche in note ai singoli passi, su cui si è preferito condurre la traduzione: prowederà di suo, l'umanistico lettore, a un paziente intervento sui quasi cento luoghi. Italiani senza Italia» di Aldo Schiavone ITALIANI SENZA ITALIA Aldo Schiavone Einaudi pp. 120 L 14.000 ITALIANI SENZA ITALIA Aldo Schiavone Einaudi pp. 120 L 14.000 CRIVE nel suo ultimo libro Italiani senza Italia (pubblicato da Einaudi) Aldo Schiavone, storico, antichista, intellettuale da sempre impegnato nell'area culturale del pei prima e del pds dopo: in Italia c'è una «tendenza totalizzante che rinnova ogni volta i rischi di regime - prima che l'occupazione indiscriminata delle cariche - e rende il trasformismo e la mediazione l'essenza del calcolo politico italiano: con la destra che cerca di farsi sinistra, e la sinistra destra, in una convivenza indistinta di sigle e di pensieri, dove, alla resa dei conti, vale soltanto la trama di potere che si difende e si accresce, principio e fine di ogni azione». E' il rifiuto fobico dell'esser «parte» e non «tutto», curioso in un Paese che viene convenzionalmente definito come il regno delle fazioni e dei dualismi irriducibili, dal conflitto tra guelfi e ghibellini alla rivalità tra patiti di Coppi e tifosi di Bartali, che rende l'Italia terra di elezione di qualunque trasformismo: l'idea che si debbano recitare tutte le parti in commedia, di non lasciare nessun segmento scoperto, di promuovere una convivenza tra diversi che si riconoscono simili e simili che fingono di essere diversi. Continua Schiavone: «Fin quando durerà questo gioco...qualunque schieramento - soprattutto se centrato su una sinistra che resta minoritaria - per affermarsi, cercherà di ridurre a sé l'intero universo del paese, e innanzitutto le componenti di ascendenza democristiana, giudicate la più efficace garanzia di irradiamento oltre i propri confini naturali: rendendo così la formula del compromesso cattolico un parametro indistruttibile della nostra politica...Ed è per questo che nei peggiori dei nostri pensieri il Pds rischia di apparire la vera De del futuro». Affondiamo le nostre radici in uno spirito municipale, tra contese ed eterni compromessi avvertono le conseguenze di due fenomeni fatalmente convergenti. In primo luogo il prosciugarsi delle fonti di legittimazione che fondano un'identità coesa e un modello di identificazione a impronta nazionale, cioè comprensiva di ideologie e culture differenti che però riconoscono un comu Una vocazione naturale al «regime», sembra di capire dopo aver letto il libro. Una coazione a ripetere che affonda le sue radici in un passato millenario che ha contribuito a forgiare e a marchiare indelebilmente il carattere più profondo dell'Italia e degli italiani. Si moltiplicano gli studi e le indagini sull'«identità» italiana, i tentativi di rintracciare quei tratti comuni, quelle costanti antropologiche che permettono di riconoscere un carattere nazionale che sopravvive a crisi e impulsi disgreganti. Si moltiplicano quanto più si Affondiamo le nostre radici in uno spirito municipale, tra contese ed eterni compromessi avvertono le conseguenze di due fenomeni fatalmente convergenti. In primo luogo il prosciugarsi delle fonti di legittimazione che fondano un'identità coesa e un modello di identificazione a impronta nazionale, cioè comprensiva di ideologie e culture differenti che però riconoscono un comune territorio morale e valoriale di appartenenza. In secondo luogo l'accrescersi e l'intensificarsi di spinte secessioniste che per la prima volta da una prospettiva «laica» mettono direttamente in discussione i risultati unitari del Risorgimento italiano. Il merito del libro di Schiavone è di trovare un equilibrio tra l'attenzione alle vicende politiche in cui si dibatte l'Italia che si appresta a entrare in Europa e nel ventunesimo secolo e la «lunga durata» di vicissitudini storiche che hanno modellato l'identità di un Paese che esibi¬ sce nelle sue città e persino nel suo paesaggio la stratificazione di una storia ricca e talvolta gloriosa. Esemplare in questo senso l'interessantissimo terzo capitolo del libro in cui vengono presi in esame per così dire «comparato» due periodi d'eccellenza della storia italiana, ambedue peraltro destinati a tracolli apocalittici e cadute rovinose: «l'occasione» romana, che «tra l'ultimo secolo avanti Cristo e il secondo d. C, quando la Penisola si trovò al centro di un dominio imperiale capace di unificare quasi tutto il mondo che si riusciva allora a vedere dal Mediteraneo»; e quella «fra dodicesimo e sedicesimo secolo, culminata nel Rinascimento, quando indicò all'Europa, dopo una crisi spaventosa, il percorso economico, civile, intellettuale che avrebbe portato alla modernità». Si tratta di due grandi occasioni perdute. Ma soprattutto si tratta di due momenti della storia «italiana» in senso lato fondate su impressionanti dati comuni, a cominciare dalla prevalenza di una cultura urbana e civica poderosa ma al contempo veicolo di uno spirito «municipale» non scevro da degenerazioni particolaristiche e conclusesi nella disfatta seguendo percorsi anch'essi straordinariamente somiglianti. Un alternarsi di successi e decadenze che appunto costituisce un duplice antefatto che dovrebbe far riflettere chi ha interesse a capire su quali costanti si poggia il nostro «carattere nazionale». Un destino che genera un'angoscia della fine, causa non ultima di quella propensione al «regime» che Schiavone ha analizzato nel passo sopra citato. Italiani senza Italia, appunto. Come se il futuro del Paese fosse già scolpito nel passato della sua lunghissima storia. Un passato, anche in questo caso, che non intende «passare» con tanta facilità. Pierluigi Battista GLI ANNI SETTANTA? SANGUE E DADA Mughini testimone del «grande disordine» IL GRANDE DISORDINE Giampiero Mughini Mondadori pp. 336 L. 30.000 Una generazione in cui prevalse la «creatività» e che non si può tutta ridurre al terrorismo E la ricordo bene quella mattina di primavera di vent'anni fa, quando alla redazione di Lotta continua arrivò come dappertutto la prima foto choc di Aldo Moro prigioniero, la camicia bianca sbottonata, il capo reclinato, una copia di Repubblica messagli tra le mani dai brigatisti. Non passò molto tempo che dal gabbiotto in vetro dove fumava e disegnava, venne fuori Vincino con la vignetta per l'indomani. Riproduceva la foto del prigioniero scamiciato con sotto la didascalia: «Scusate, abitualmente vesto Marzotto». Vincino era già bravissimo allora, anche quella battuta terribile, riconosciamolo, a suo modo era di buon livello. Fu difficile e mortificante dirgli che no, non si poteva più, quella vignetta era formidabile ma non gliela avremmo pubblicata. La tragedia prevaleva sulla creatività, e quella censura convinse definitivamente Vincino alla scissione, cioè a dar vita al Male, settimanale satirico nato da una costola di Lotta continua non più in grado di racchiuderlo, benché lo stampasse nella sua tipografia di via dei Magazzini Generali. Ricordo questo episodio a parziale rettifica della versione che ne dà Giampiero Mughini nel suo libro sugli anni Settanta, e come questa altre infinite rettifiche, precisazioni, integrazioni verranno di sicuro dai diretti protagonisti a un racconto appassionante di trecento pagine che nonostante ciò - per indubbio merito dell'autore - pulsano di verità e autenticità. Ciascuno dei protagonisti probabilmente ha vissuto a modo suo il momento (i momenti) del separarsi tra gioco e dramma, lotta e nevrosi, gioventù e età adulta. Qui contano le soggettività, e se il libro di Mughini risulta così efficace nel congiungere i due anniversari di cui sono in corso le celebrazioni, il Sessantotto e il Settantotto, ovvero nel congiungere i due capi di un decennio appassionante e insanguinato, è proprio perché si mette in gioco in prima persona, lascia filtrare gli umori e le frustrazioni, anzi li esibisce quasi con impudicizia. Rileggiamo gli anni Settanta con gli occhi di un testimone che si espone per intero. Rivelandoci di avere pianto solo tre volte nella sua vita adulta («in morte di mio padre, in morte di Ignazio Silone, in morte di Sciascia»), paragonandosi a «quei personaggi cinematografici alla Humphrey Bogart, uno che quando entrava in una casa l'impermeabile non se lo toglieva mai, tanto sapeva che a minuti avrebbe aperto la porta e sarebbe andato via». Ma soprattutto presentandoci con assoluta onestà intellettuale una galleria di personaggi acutamente selezionati a rappresentare, nelle loro individuali vicissitudini, un'epoca nella quale le vite potevano essere davvero avventurose, i destini incrociarsi nei modi più impensati, i tragitti oltrepassare il vincolo delle classi sociali d'origine. Molti di questi personaggi entrano ed escono dalla casa romana dell'autore, o comunque ne popolano il quartiere, ma anche questo anziché un limite d'orizzonte appare un rafforzamento della verità del racconto. Anche perché tra le mille e mille storie individuali del Sessantotto-Settantotto Mughini sa scegliere felicemente, che si tratti del brigatista genovese senza nome, il dolcissimo orfano Riccardo Dura che ha imparato fin troppo bene la ferocia; o della immeritatamente sconosciuta femminista Carla Lonzi, autrice nel 1970 di quel provocatorio pamphlet, Spu¬ tiamo su Hegel, che non era facile riesumare ma che probabilmente soprawiverà nel tempo per la sua indubbia dignità teorica. Può essere gustoso ritrovare il giovane Massimo D'Alema, segretario della Fgci, in conferenza stampa seduto accanto all'indiano metropolitano Gandalf il Viola (ma è sicuro Mughini che non si trattasse invece di Beccofino?); può essere istruttivo rileggere la vicenda di Bologna come laboratorio della crisi di una sinistra in cui si manifestava incompatibilità tra l'io desiderante delle nuove generazioni non garantite e la dottrina socialdemocratica e leninista insieme del gruppo dirigente comunista. Proprio nell'esame critico di quella dialettica troviamo la tesi centrale del libro di Mughini: che nonostante l'egemonia esercitata in apparenza dal marxismo in tutte le sue versioni (estremiste e moderate) sul movimento giovanile, a vincere sulla lunga distanza sia stata la sua componente creativa, quella in origine situazionista e dada, le cui rotture di lmguaggio ritroveremo non solo nei nuovi media ma perfino nel design e nella moda degli anni successivi. Si spiega così anche l'apparentemente assurda nostalgia di Mughini per i Settanta, «gli anni delle scelte», non riducibili al sangue che vi era stato versato. Ne scrive con l'enfasi assertoria che gli è propria («Furono anni in cui ogni appartamento di studente fuori sedo divenne un potenziale laboratorio per "bocce" e ordigni esplosivi vari»), ma sempre con disinteressata partecipazione. Per questo il libro di Mughini è raccomandabile a chi voglia ricostruire frammenti di memoria di una generazione. In altra sede potremo riflettere sul perché in Italia tale memoria non abbia ricevuto ancora, trent'anni dopo, quella imponente sistemazione organica che già nel 1987, con più di mille pagine appassionanti, le fu data in Francia da Hervé Hamon e Patrick Rotman nel loro bellissimo Generation, edito da Seuil. Ma intanto diciamo grazie a Mughini che comincia a provarci. Gad Lerner I BUCHI NERI DEL NOVECENTO O sempre accolto di buon grado le polemiche culturali e mi sono sempre confrontato a viso aperto con le critiche anche radicali ai miei libri. Ma nel caso della recensione di Angelo d'Orsi al mio libro II secolo sterminato {Tuttolibri 1096) si tratta di insulti e non di argomentazioni critiche; dichiarazioni di odio e di disprezzo verso l'autore prima che verso il libro. E non è mia volontà né mio stile replicare omeopaticamente. Devo constatare che il mio libro ha suscitato l'irascibilità di tanti custodi e uscieri del «politically correct», ho letto persino una stroncatura del mio libro quasi interamente dedicata alla copertina e alla bandella, che sono prerogative dell'editore. Mi sarebbe piaciuto discutere, fra l'altro, sulla fondatezza o meno dell'interpretazione del Novecento come secolo parricida; un secolo caratterizzato anche in Italia da parricidi (quello di Umberto I, quello di Mussolini, quello di Moro, che hanno segnato la liquidazione di tre Italie differenti) che si conclude come secolo senza figli. Liberati dalla tradizione, nel sogno dell'uomo nuovo, siamo approdati alla liberazione dal futuro e dalla sua gravidanza. Mi sarebbe piaciuto discutere sulla fondatezza o meno dell'idea dell'Italia come laboratorio del secolo; non inteso come primato ' giobertiano dell'Italia (questo resta il secolo americano) ma come «paradigma mondiale» di alcune elaborazioni ideologiche (fascismo, comunismo occidentale, cattolicesimo umanitario, suicidio delle rivoluzioni), scientifiche (Fermi e Marconi), artistiche (il futurismo) dilagate nel mondo. Ma mi sarebbe piaciuto soprattutto discutere sulla scatola nera del comunismo. Nel mio libro il peccato originale del comunismo viene individuato laddove viene solitamente fondato il suo alibi di superiorità rispetto agli altri orrori del '900: il beneficio delle buone intenzioni, l'afflato utopico verso un mondo migliore. E' proprio nell'idea di sacrificare l'umanità reale all'umanità ideale, gli uornini vivi e presenti agli uomini venturi, il codice genetico che ha destinato il comunismo ad essere l'esperienza più tragica del nostro secolo. Fare il male nel nome del bene, fare il male ritenendo di fare il bene, massacrare con la buona coscien¬ za. Il comunismo come abolizione della realtà. Avrei poi voluto confrontarmi sull'interpretazione del nazismo come del tentativo radicale di inverare la mistica e la religione dentro l'orizzonte biologico e naturalistico del razzismo analogamente al comunismo che è il tentativo di inverare la redenzione e il paradiso entro l'orizzonte sociale e storico del materialismo. Invece, mi sono trovato deriso perfino per l'ampiezza dei riferimenti bibliografici (con la grottesca accusa che avrei propinato «una serie irifinita di citazioni come se fossimo al Costanzo Show»: non ho mai sentito citazioni della Arendt o di Del Noce monopolizzare un talk show). Ho sentito sconcerto per la convinzione, storicamente e teoricamente dimostrata (non solo da me, si legga il libro nero del comunismo) di Lenin come l'iniziatore del terrore nel nostro secolo. Ho sentito definire «da salotto» o addirittura di «irritante comicità» le interpretazioni dei cri- ìeneziani replica: «Capisco il dissenso, non la derisione: voglio un confronto nelmerito> mini del '900, la critica del fascismo e dell'antifascismo o gli incroci tra fascismo e comunismo. Temi di cui mi occupo da quasi vent'anni, in libri a lungo ignorati dai funzionari del potere culturale (la «ribalta berlusconiana» ha solo acceso le luci su culture e autori che esistevano - al buio - da tempo). Capisco il dissenso anche radicale verso quelle interpretazioni; non l'aggressione intellettuale e la derisione, per difendere un monopolio accademico e ideologico. Se sta rinascendo un clima di mtimidazione e di intolleranza nel nostro Paese, di squalifica dell'avversario culturale, che poi si riflette in una serie di sintomatici episodi, sappiamo chi ringraziare. Marcello Veneziani Siamo alle solite. Un esponente della cultura di destra, «soffocata» per mezzo secolo dall'imperante sinistra, e «liberata» dall'ondata berlusconiana, si risente se qualcuno esprìme critiche (radicali, quanto radicali sono le convinzioni e le interpretazioni di Veneziani) nei riguardi del suo ennesimo libro «provocatorio». Se questa è dntimidazione» e «intolleranza», il recensore - convinto di aver reso un servizio ai lettori e allo stesso autore - se ne assume tranquillamente la responsabilità. Angelo d' Orsi In edicola da sabato 28 febbraio / In anteprima la moda delle passerelle milanesi. Un disegnatore interpreta gli schizzi "segreti" di Armani, Dolce & Gabbana, Fendi, Ferrè, Gigli, Krizia, Mila Schòn e Versace. / Con la moda nel sangue. Le dinastie del made in Italy guardano al Duemila. Con molta fiducia reciproca e qualche litigio. / Holbein, il pittore dello stile. Nei suoi ritratti tutta la moda del tempo. y Belli di giorno, belle di notte. Così vivono le drag queen nev/yorkesi, splendidi travestiti con l'ossessione del look. S Eleganti per natura. Le gambe lunghe della giraffa, gli occhi del cerbiatto, la coda del pavone: ecco gli animali più belli del mondo. / Tahiti, il tatuaggio è nato in Paradiso. Dll'il li i dt ti gDall'isola polinesiana arriva undrte antica che ha affascinato tutto il mondo.