Tracce saracene nelle Valli Occitane. Dario Fo e la clonazione

Tracce saracene nelle Valli Occitane. Dario Fo e la clonazione lettere AL GIORNALE Tracce saracene nelle Valli Occitane. Dario Fo e la clonazione Scampati alle pulizie di Carlo Martello A conferma di quanto scrive Alessandro Barbero su Ixi Stampa del 13 febbraio a proposito della presenza dei Saraceni e della loro civiltà nelle Valli Occitane del Piemonte, in riferimento al libro di Bocca Centini, nelle Valli Valdesi del Pellice e del Chisone si scoprono evidenti tracce di questa presenza, forse di alcuni scampati alle pulizie di Carlo Martello. Le tracce sono soprattutto nei nomi dei luoghi e anche di famiglia: Salvai, Salvagiot, Pian del Sarasin, Salvage, Cappella Moreri. Molte leggende locali fanno riferimento a tali presenze, anche se mescolate a racconti di briganti, maghi e fate. Esseri misteriosi, neri, pelosi che incutono paura, utilizzati per discutibili fini pedagogici al fine di ridimensionare bambini troppo intraprendenti e inculcare disdicevoli princìpi razzisti. In quanto poi alla loro civiltà e alle loro avanzate capacità professionali, alcune leggende attribuiscono ad essi l'introduzione dell'agricoltura, presso popolazioni che, a quanto pare, vivevano solo di pastorizia. Ma stranamente viene loro attribuita anche la capacità di trarre dal latte burro e formaggio. Quindi non solo banditi spaventabambini, ma maestri, innovatori, apportatori di nuove tecniche agricole. Sembra tuttavia che su queste tecniche fosse stato imposto un doveroso segreto professionale, talché i contadini riuscirono a scoprire i meccanismi di tali procedimenti, spiando dal buco della serratura. Però presi dall'entusiasmo e dalla poco lodevole intenzione di catturare il moro su cui era stata posta una taglia di 1000 scudi, interruppero il suo lavoro, precludendosi così, purtroppo per sempre, la possibilità di apprendere una ulteriore procedura che era quella di trarre dal latte anche il miele e la cera! Infatti questa tecnica non riuscì mai a nessuno! Così conclude l'antica leggenda: «Se voù m' aguésse enea lissà / Mei e eira ourìou enea ciavà / De moun breu de lità» (Se mi aveste lasciato, avrei ancora tratto dal mio latte, miele e cera!). Portatori di grande civiltà i Saraceni, scrive Barbero, ma temo che qui l'immaginazione popolare abbia leggermente «smarronato»! Alberto Taccia Luserna San Giovanni (Torino) Geni «in vitro» per terapie avanzate La lettera inviata da Dario Fo e pubblicata su La Stampa di sabato 21 chiarisce il suo pensiero molto meglio di quanto espresso nello scarno comunicato Ansa che mi era stato chiesto di commentare (vedi mia intervista su La Stampa giovedì 19). Avevo sostenuto che non ritenevo né possibile né opportuno effettuare brevetti sul corpo umano, anche perché ero a conoscenza dell'affermazione dell'Unesco, citata da Fo, che «il materiale genetico umano è patrimomo comune dell'umanità». Rimango della mia idea che in effetti contrasta, come giustamente sostiene Fo, con quanto enunciato dall'articolo 5.2 della proposta di direttiva dell'Ue. Ritengo eticamente non accettabile brevettare geni umani naturali o di sintesi, ma mi sembra in linea di principio accettabile brevettare geni o sequenze di geni modificati «in vitro» per effettuare terapie avanzate aventi come bersaglio cellule somatiche (e quindi non germinali). Per quanto riguarda i brevetti in agricoltura, non intendevo certamente difendere manipolazioni genetiche che mettono a rischio la salute dei consumatori. Volevo sottolineare che non è giusto imputare alla scienza la creazione di problemi, quando è al contrario ben dimostrato che le biotecnologie possono risolverne molti: nel campo vegetale, appunto, la creazione di piante utili resistenti alla siccità e all'inquinamento. Il punto del contendere è proprio questo: valutare correttamente, serenamente e con trasparenza i rapporti costi/benefici delle biotecnologie. Tra i costi, deve sicuramente essere eliminata qualsiasi violazione della personalità umana, della vita e dell'ambiente. Se la proposta di direttiva è incompatibile con questi principi elementari, tra l'altro largamente condivisi tra gli scienziati, e se la direttiva stessa è così rischiosa nelle sue apphcazioni, occorre coinvolgere rimesco in problemi di regolamentazione giuridica e scientifica che riguardano tutta l'umanità. Un accordo sulle regole del gioco è difficile, come ampiamente dimostrato dalla recente Conferenza mondiale di Kyoto sull'ambiente, ma è sicuramente giusto provarci. Quindi, non condanno la protesta di Dario Fo e degb europarlamentari verdi e non mi sento un addetto ai lavori «terrorista». Al contrario, ritengo che solo un'informazione precisa da parte degb addetti ai lavori possa rimuovere le molte paure dell'opinione pubbhca sulle biotecnologie. Pertanto non posso ammettere che atteggiamenti emotivi possano aumentare oltre misura queste paure tanto da far dimenticare gli enormi avanzamenti, finora solo in minima parte espressi, che le biotecnologie possono offrire al progresso dell'uma¬ nità. Qualche «piccolo stregone» come quelli citati da Fo, «potrebbe creare un disastro». Ma è ipotesi veramente remota perché presuppone un lavoro di tipo individuale ormai obsoleto, non controllato nelle impostazioni, nei metodi e nei risultati, quindi non realizzabile. Quanto ai brevetti, lo sviluppo della ricerca industriale mediante sistemi che ne aumentano la competitività è auspicabile per la creazione di posti di lavoro, per il rafforzamento dell'economia e per il miglioramento della qualità della vita che deriva da prodotti tecnologicamente pregiati. Questi sono incontestabili «benefici» e anche molto pesanti. Perseguirli in tutte le forme, ivi compreso un dialogo serrato, ma onesto e oggettivo tra «addetti ai lavori» e «fustigatori di coscienze», non può che andare a vantaggio della collettività. Antonio De Flora, Genova direttore Progetto finalizzato biotecnologie del Cnr Biondi e la cazzuola donata a Cossiga Leggo sempre volentieri i pezzi di Ceccarelb. Nel grigiore generale essi rappresentano un'eccezione non conformista. Regalando una cazzuola al sen. Cossiga, ho voluto fare un augurio ad un vecchio collega ed amico, offrendogli uno strumento di lavoro utile alla costruzione e non alla demolizione. La cazzuola, scrive Ceccarelli nel più rinomato simbolismo massonico, rappresenta «la fase di coesione che lega le parti della fratellanza, oltre a murare il silenzio nei confronti dei profani». Sarà così ma non ho pensato a questo aspetto, nell'articolo si ricorda, e ne sono grato, che Biondi e Cossiga «non hanno mai perso occasione per difendere la massoneria che è sembrata (qui in Italia) spesso indifendibile»; la cosa risponde al vero per quel che riguarda l'arbitraria ed ingiusta assimilazione di ogni Ubera associazione con le degenerazioni che hanno interessato cronache e giudici. Tutto questo è avvenuto ogni volta che si è confuso il sospetto con la pro¬ va, con violazione della libertà di associazione costituzionalmente garantita, e con finalità spesso non chiare. Si aggiunge pure che «può darsi benissimo che Cossiga e Biondi non ne facciano parte». Se non basta la mia parola, per escludere la mia appartenenza, vorrei aggiungere che il mio carattere estroverso (ed anche quello di Cossiga) corifligge con quelle esigenze di «silenzio e di riservatezza» che sono proprie di quel sodalizio. Alfredo Biondi, Roma Vice Presidente della Camera dei Deputati Marx, il proletariato e la barba di Engels Nella prima pagina della Cultura di ieri, dedicata da me a una recensione postuma del Manifesto di Marx e Engels, evidentemente il computer è incorso in un errore che inquina il senso del testo: io, appellandomi al dettato marxista, parlavo di un proletariato «erede dìsereditato della borghesia», e purtroppo la formulazione è stata alterata da «proletariato discreditato della borghesia». E' chiaro che la prima versione è quella esatta. Mi permetto inoltre di segnalare un errore iconografico: nel disegno di Levine si vede un Marx accavallato sopra la testa di Hegel, al quale erroneamente nella didascaba è stata attribuita l'identità di Engels. Engels fra l'altro aveva la barba, vestiva abiti da tardo Ottocento, mentre Hegel come si vede giustamente nel disegno vestiva abiti ancora settecenteschi e non aveva un pelo sotto il mento. Enzo Bettiza

Luoghi citati: Genova, Italia, Luserna San Giovanni, Piemonte, Roma, Torino