La notte insonne dei califfi di Baghdad

La notte insonne dei califfi di Baghdad La notte insonne dei califfi di Baghdad Luci accese nelle stanze del potere, aspettando il verdetto LA NUOVA TEMPESTA BAGHDAD DAL NOSTRO INVIATO «Se Annan vuol venire, è il benvenuto. Ma soltanto se arriva per dialogare. Per i messaggi ultimativi, basta il fax». Con queste parole destinate a far storia, ieri pomeriggio Tarek Aziz ha mandato dallo schermo di una tv il suo ultimatum ai cinque Grandi che stavano per sedersi al tavolo del Consiglio di sicurezza. E allora in silenzio, senza farci su tanto cinema, ma anche senza affanno, abbiamo cominciato tutti a montare i nostri preparativi di guerra. Siamo andati ad acquistare scorte rassicuranti di torce e di pile, abbiamo ammassato in un angolo della stanza le bottiglie deU'acqua.e il poco scatolame che si trova in giro, abbiamo annotalo quali muri e quali corridoi siano più protetti da un colpo dall'esterno. Però non c'è alcuna preoccupazione, ancora; in una situazione che si va facendo sempre più a rischio, queste sono pratiche minime di sopravvivenza. E non è nemmeno vero che stia prevalendo il pessimismo. Ma il tempo passa, va via, e le parole di Tarek Aziz non sono parse adeguate a rafforzare le speranze - che pure ancora ci sono di un negoziato. Il giorno D, quello nel quale si decide la pace o la guerra, dovrebbe essere oggi. Ieri notte, e per tutta la notte, l'orrendo palazzone dove Tarek Aziz lavora, un palazzone che ha un colore incredibile, una sorta di castagnaccio sottile e squadrato, alto dieci piani, si è disegnato con le sue luci accese, contro il profilo di una città che i tagli di energia riducono spesso al buio: in quelle vecchie stanze sul fiume, l'intera équipe diplomatica che sta pilotando il braccio di ferro con gli Stati Uniti era incollata al telefono, in contatto costante con l'ambasciata di New York. E nell'ufficio del numero due del regime, di fronte alla scrivania e al salotto di pelle, la tv restava sintonizzata sul canale della Cnn. Tarek Aziz aveva seguito con molta attenzione il discorso duro, senza margini d'ambiguità, del presidente Clinton, e ora aspettava il risultato della riunione del Palazzo dell'Onu, che stava decidendo la pace e la guerra. Lui aveva lanciato il suo messaggio; ma qui, la pace è vista come già una vittoria. Le ore che precedono una guerra possibile sono insopportabilmente lunghe. Il tempo passa con una lentezza distruttiva, specialmente in una città che si mostra impenetrabile per gli stranieri, rinserrata dentro una orgogliosa, e sospettosa, diversità. Al di là comunque delle dichiarazioni ufficiali, e delle jinarce passabilmente patacche che i «miliziani volontari» fanno nelle piazzette dei quartieri, la vita non pare ancora turbata dalla prospettiva di un attacco imminente. Sono soltanto aumentate, negli ultimi giorni, le batterie contraeree piazzate sui tetti dei palazzoni più alti; ma a terra, negli spazi della vita quotidiana, la gente continua a se- guire ritmi e abitudini che non sono segnati da una evidente accelerazione dell'emergenza. Baghdad - e tutto l'Iraq comunque - vivono da sette anni come se fossero ancora in una guerra; non è il rombo degli F-14 e degli F-117A che si sente dall'altra parte della frontiera, che può drammatizzare di molto questa soffusa disperazione collettiva. La guerra - che gli americani attacchino o no - c'è già nelle ferite inferte dalla sconfitta del «Desert Storni» e poi dall'embargo: l'economia irachena è allo sfascio, il dinaro viene stampato dalla Zecca con un ritmo che forse soltanto Weimar immaginava, e manca tutto, i generi di prima necessità e però anche i beni di consumo. Ma Dunija Maklef forse non potrà mai raccontare questa disperazione. Dunija ha 14 mesi, e pesa soltanto 4 chili che con un soffio la porti via. E' nata come una bimba normale, ha gli occhi di un azzurro profondo e la pelle chiara; «Però ora soffre di malnutrizione», dice il medico, il dottor Yasser Rauf, vuol dire che la bimba sta morendo di fame. E non solo di fame/ma anche di anemia, di setticemia, delle piaghe orrende che il decubito le ha inferto nella schiena e nel culetto. A 14 mesi, nel resto del mondo si pesa 12 o 14 chili; non in Iraq. Dunija è ricoverata in un ospedale che, naturalmente, si chiama Saddam Hussein, nel reparto emergenza. «La bimba avrà difficoltà a sopravvivere» diceva poi nel corridoio il giovane medico. Voleva dire che quando stamane tornerò all'ospedale a trovare Dunija, è molto probabile che i biscotti zuccherati che ho comperato per lei debba riportarmeli in albergo. L'Iraq aveva 22 ospedali; «Condizioni di eccellenza» spiega il dottor Rauf. Oggi manca quasi tutto, cannule, siringhe, anestetico, antisettici, fasce, antibiotici, filo di chirurgia, perfino le lampade delle incubatrici. A Baghdad ci sono grattacieli nuovi e orgogliosi, monumenti solenni di regime che anni fa non avevo visto e che certamente non c'erano; però ugualmente l'embargo ha penalizzato la vita quotidiana in una misura atroce, forse anche al di là delle stesse intenzioni che lo avevano sostenuto nel voto dell'Onu, sette anni fa. Nella corsia di Dunija, un'infermiera stava prelevando il sangue dal braccìno della bimba; non c'erano cannule però, né siringhe, e il sangue | veniva fatto scorrere a ii gocce, una goccina dopo l'altra. Dal marzo '89 al marzo del '97, in Iraq la mortalità infantile per gastroenterite è cresciuta del 995 per cento, nei casi di polmonite dell'887 per cento, e del 1958 per cento nei casi di denutrizione. Dunija non l'avevano messa su quel lettino per fare propaganda, per fare che un giornalista straniero la vedesse e se ne commuovesse. Lei stava morendo davvero. E le colpe sono tutte di questa guerra che continua anche quando non c'è: sono colpe del regime, certamente, ma anche colpe di chi da fuori pensa che l'embargo alla Fine piegherà Saddam o lo farà fuori. In questa schermaglia drammatica, le ragioni della politica giocano ogni carta con spregiudicatezza, ricorrendo magari al colpo del minuto estremo. Notizio filtrate, ma mcontrollabili, dicevano ieri di un segnale lanciato dall'Iraq verso il Consiglio di Sicurezza, nello stesso momento nel quale Tarek Aziz aveva l'atto avere ai Cinque Grandi la sua spiegazione sull'uso del fax; nel codice di questo segnale verrebbe manifestata la disponibilità irachena ad accettare tutti i punti controversi della disputa con Washington, purché l'accettazione venga raccolta e sancita dal segretario generale Annan nella sua qualità di rappresentante di un organismo super partes. L'Iraq in realtà non pare avere in mano molte carte per imporre le proprie tesi. Quello che Aziz faceva sapere ieri - di una disponibilità irachena ad ascoltare «la proposta di equi compromessi» - va ben poco al eh là delle formule che in questi giorni di incattivimento della crisi sono state tentate e sempre sono fallite. La partita si gioca ancora sul ruolo degli ispettori dell'Onu e sui loro sospetti che l'Iraq tenga nascoste ancora montagne di armi batteriologiche, capaci di far fuori mezzo mondo. Saddam ha fatto sapere che non è affatto vero, ma il curriculum di Saddam dice che non è sempre salutare fidarsi dei suoi impegni. Mimmo Candito Sono aumentate le batterie antiaeree sui tetti dei palazzi più alti Frenetiche telefonate con l'ambasciata a New York, gli occhi incollati alla Cnn Ma la vita della gente continua normale: qui si vive in regime di guerra da sette anni non è il rombo degli F-14 e degli F-117A che si sente dall'altra parte della frontiera, che può drammatizzare di molto questa soffusa disperazione collettiva. zione», dice il medico, il dottor Yasser Rauf, vuol dire che la bimba sta morendo di fame. E non solo di fame/ma anche di anemia, di | ii A sinistra il vicepremier iracheno Tarek Aziz A destra la distruzione di armi chimiche da parte del personale Onu in Iraq In alto, il presidente americano Bill Clinton Qui accanto, il Segretario generale delle Nazioni Unite Kofi Annan