Saraceni, predoni immaginari

Saraceni, predoni immaginari Un saggio politically correct dipinge i briganti mori sulle Alpi come portatori di civiltà. Ma sono davvero esistiti? Saraceni, predoni immaginari Indagine su una leggenda nata in età romantica /n IONO tempi duri per la diL ' vulgazione storiografica, m costretta a navigare a vista il fra gli scogli del politically bi. I correct e le bufere d'una storiografia che pare divertirsi a demolire le più vecchie e rassicuranti certezze. Così, occuparsi dei Saraceni nelle Alpi, come fanno Claudia Bocca e Massimo Centini in un volume che sta per essere pubblicato da Priuli e Verlucca, obbliga a cautele che gli eruditi d'altri tempi non si sarebbero mai sognati: precisare, ad esempio, fin dalla prima pagina che quei feroci briganti, la cui memoria provoca ancora spavento nei villaggi alpini, non erano affatto rozzi, barbari e sanguinari, ma portatori d'una grande civiltà. Meglio anzi ottenere la prefazione d'un dignitario dell'Associazione Italo-Araba, con l'auspicio che rievocare quelle dolorose vicende serva in realtà a far giustizia «dei pregiudizi e dei muri culturali e razziali». Coprirsi le spalle dai malumori d'una società multietnica è però ancora semplice; molto più difficile è presentare credenziali impeccabili alla comunità scientifica. Si sa infatti che gran parte di quel che tramandano sui Saraceni le cronache medievali e le vite dei santi è pura fantasia; ma attenersi con scrupolo a ciò che passa attraverso le maglie della critica storica significa perdere per la strada le fanatiche orde musulmane, capaci di spianare al loro passaggio monasteri e città. Al loro posto bisogna, ahimè, accontentarsi di qualche banda di briganti accampati in montagna, pronti a taglieggiare i viaggiatori ma anche a mettersi al servizio di un principe locale in vena di far a botte col vicino. Peggio ancora, c'è il sospetto che quelle bande accogliessero, sì, qualche pirata berbero, ma più o meno come le brigate partigiane accettavano sui loro ruolini, all'occasione, fuggiaschi russi o jugoslavi: nelle lunghe serate accanto al fuoco, gli accenti che risuonavano fra quei duri erano per lo più piemontesi o occitani, giacché il grosso della truppa era formato da fuorilegge, sbandati o pregiudicati di origine per nulla esotica... Bocca e Centini non riescono sempre a nascondere il loro fastidio nei confronti d'una critica storica così importuna; il loro cuore è con Wittgenstein, secondo il quale non sempre è vantaggioso sostituire una immagine sfuocata con una nitida. Così, dovendo offrire un quadro complessivo delle scorrerie saracene fra Provenza, Piemonte e Liguria, non hanno il coraggio di operare una potatura rigorosa; e preferiscono rifarsi «alla cronologia riportata dalle fonti e comunemente accettata», pur riconoscendo le obiezioni distruttive avanzate dalla storiografia più recente. Non è esattamente un metodo cartesiano, e non vorrei essere nei panni degli autori quando qualche storico dalla penna affilata, ad esempio Aldo A. Settia, pur largamente citato nelle loro pagine, dovrà recensire il libro in sede scientifica. Ma quando si tratta di catalogare gli innumerevoli manufatti, dalle torri ai graffiti rupestri, che la tradizione locale attribuisce ai Saraceni, anche i divulgatori più riluttanti sono costretti ad ammettere che nella stragrande maggioranza dei casi si tratta soltanto di chiacchiere. Le «torri saracene» che popolano le coste liguri e le valli alpine non hanno quasi mai a che fare con l'epoca delie invasioni; i loro nomi sono nati in epoca molto più tarda, quando ci si era dimenticati che intorno ai Mille le nostre campagne erano inquadrate ovunque da una fittissima rete di torri e castelli, e si sentiva il bisogno di connettere ad un avvenimento fondante quel pullulare di fortificazioni altrimenti inspiegabile. Allo stesso modo, i numerosi «cimiteri saraceni» o «grotte del Saraceno» sono quasi sempre riconducibili ad altre epoche, magari addirittura più antiche e dunque più interessanti: il cosiddetto «Maometto» che si vede intagliato nella pietra a Borgone di Susa è in realtà un Giove Dolicheno di età imperiale romana. Ma se, a conti fatti, le invasioni saracene nelle Alpi si riducono a un evento quasi insignificante, una fra le tante variabili impazzite d'un'età profondamente segnata dal disordine e dalla violenza, un problema rimane aperto, questo sì suscettibile di sviluppi appassionanti: perché, esattamente, la loro memoria è sopravvissuta, anzi s'è ingigantita a tal punto nella memoria collettiva dei nostri montanari? Un'ipotesi è che i Saraceni, con la loro pelle scura, fossero identificati con il diavolo, tradizionale frequentatore delle soUtudini alpine. Avventurarsi in speculazioni etimologiche è sempre rischioso, ma se davvero il nostro babau (e cioè appunto l'uomo nero!) è parola che deriva dall'arabo, i conti parrebbero tornare; tanto più che in Provenza, a due passi dal covo saraceno del Frassineto, presso St. Tropez, c'è proprio un Col de Babao. Per quanto poco numerosi, insomma, i Mori risultavano particolarmente adatti a incarnare le paure collettive dei valligiani: paura dell'altro, del diverso, del soprannaturale. Si spiega, allora, che le tradizioni locali insistano così volentieri sulle aspre vendette che i cristiani, quando potevano, traevano sui loro persecutori: Saraceni bruciati vivi in Val elusone, o gettati in mare con una pietra al collo a Finale Ligure. Episodi privi di documentazione storica, ma interpretabili in chiave folcloristica, non diversi dai rituali liberatori con cui si brucia la Vecchia a Carnevale. E la bella Alda, allora, che si buttò dalla Sacra di San Michele per sfuggire alle voghe dei Saraceni che l'inseguivano? Anche qui non è nei fatti storici, ma nell'immaginario collettivo che bisogna cercare le radici d'una leggenda. Il racconto, nelle sue molte varianti, è imparentato alle tradizioni popolari che narrano la ribellione dei contadini contro lo «ius primae noctis» preteso dal feudatario locale; non a caso leggende dell'uno e dell'altro genere s'intrecciano nelle complesse danze occitane, come il ballo degli Spadonari in Val di Susa, in cui s'incarna l'identità collettiva delle comunità valligiane. Senza escludere la presenza di un nocciolo mitico risalente addirittura ai rituali dell'età precristiana, è giocoforza riconoscere che il rivestimento storico di tutte queste leggende è posticcio, e in larga misura dovuto all'influenza degli eruditi locali e dei letterati romantici. Come il kilt scozzese di cui parla Christopher Hill nel suo L'invenzione della tradizione, il terrore dei Saraceni ha poco o nulla a che fare con il millennio medievale, e molto, invece, con la formazione dell'identità comunitaria in epoca moderna. Alessandro Barbero Non ci sono prove scientifiche del loro passaggio, ma erano adatti a incarnare le paure collettive dei valligiani Qui accanto la danza degli Spadonari in Val di Susa; nel disegno qui sopra un arabo

Luoghi citati: Borgone Di Susa, Finale Ligure, Liguria, Piemonte, Provenza