La duttilità del genio di Masolino D'amico

La duttilità del genio In teatro era travolgente: ma sparse oro anche tra i filmacci La duttilità del genio FRA il 1947 e il 1949, con «I due orfanelli», «Fifa e arena», «Totò al Giro d'Italia», «I pompieri di Viggiù», Totò divenne quanto a incassi il numero uno del cinema comico italiano, ossia del cinema italiano, che da allora a oggi il nostro pubblico ha sempre privilegiato, nella produzione nazionale, i prodotti cosiddetti leggeri. Reazione contro la retorica fascista, antica vocazione allo sberleffo? Fatto sta che le grandi star di cassetta da noi sono sempre stati i clown: Macario subito prima di Totò, poi Rascel, poi Sordi, poi Gassman (comico!) Tognazzi Manfredi, poi i Villaggio e i Pozzetto, infine i Nuti, Troisi, Benigni e Pieraccioni. I primi, Totò e compagni, venivano dalla rivista, avevano forti radici dialettali, e una certa età. Totò era già apparso davanti all'obiettivo durante il ventennio, vedi <<Animali pazzi» da un soggetto di Achille Campanile (1939), vedi «Due cuori fra le belve» (1943), vedi «San Giovanni Decollato» (1940), dalla commedia di Martoglio: farsa paesana quest'ultimo, mentre gli altri si rifacevano a una comicità stralunata, surreale, tipica dei nostri evasivi Anni Trenta. Nella seconda, trionfale mandata la maschera di Totò diventa meno paradossale e più umana, e l'oggetto della satira, più riconoscibile - lo spunto può partire dalla parodia di un film di successo, il dettaglio beffa la prosopopea di una piccola borghesia che tenta di darsi dignità coi paroloni («a prescindere», «lei non sa chi sono io», «ma mi faccia il piacere!»). Risultato, quasi cento film tutti ancora vivi e freschi e gettonati, e sull'altro piatto della bilancia, l'annosa questione: queste pellicole spesso frettolose e approssimative rendono davvero giustizia al suo genio? Fu Totò biecamente sfruttato da produttori avidi solo di soldi? Ebbe ragione quando di tanto lavoro salvò solo i tardi incontri con Pasolini? Il cinema limitò Totò? Come detto sopra, Totò veniva dal teatro, e al cinema inizialmente approdò solo per appagare la curiosità degli spettatori di provincia, dove le grandi compagnie non si fermavano. Chiunque abbia visto Totò dal vivo, cosa che non avvenne più dopo il 1949 (con una eccezione nel 1957), compatisce chi lo conosce solo dai film. Non solo agiva con tutto il corpo, come un burattino disarticola¬ to e acrobatico, ma il contatto con la gente lo galvanizzava; quando si sentiva seguito, andava a braccio ed era travolgente, mimicamente e linguisticamente, famoso il caso dello sketch del vagone letto, che da pochi minuti con le repliche arrivò a durare un'ora. Ora, i primi film tentarono di conservare questo aspetto di Totò, facendolo scatenare anche in improvvisazioni a beneficio della troupe, o, almeno in un caso prezioso («I pompieri di Viggiù»), riprendendolo in una sala teatrale. Ma andando avanti i registi cercarono di conciliare il surrealismo anteguerra con il neorealismo vigente. Oggi Mario Monicelli si dichiara pentito di avere così contribuito a «snaturare» Totò, che diresse, con Steno, in «Totò cerca casa», «Guardie e ladri», «Totò e i re di Roma», e da solo in «Totò e Carolina», nei «Soliti ignoti» e in «Risate di gioia». Ma ha ragione? Chi rimpiange che un solo fotogramma di questi film sia mai stato girato? Certo, invecchiando, e maturando, e alle prese con un medium diverso, Totò da quel genio che era si adeguò, e al cinema «fece» sempre meno, anche se il corpo lo usava eccome, mai tanto magistralmente come quando sembrava quasi immobile. Ma il suo interiorizzarsi diede spessore alla marionetta, consentendole a volte anche di diventare personaggio, vedi i suoi carnei in «Napoli milionaria» di Eduardo, in «L'oro di Napoli» di De Sica, nella «Patente» di Pirandello con Zampa («Questa è la vita»); vedi ancora «Dov'è la libertà» di Rossellini, «Arrangiatevi» di Bolognini, «Il comandante» di Heusch. Infine Totò incontrò Pasolini e fu sublime, soprattutto nell'episodio «Che cosa sono le nuvole» di «Capriccio all'italiana», un vero testamento spirituale. H punto però è che Totò lasciato a se stesso sparse oro anche nei filmetti e nei filmacci meno ambiziosi, dove il critico farà meglio a arrendersi davanti a una constatazione inconfutabile: si ride. Finora ho elencato quello che ufficialmente è il «meglio» lasciato dal principe: ma forse qualcuno mi seguirà se confesso che, costretto, rinuncerei a molto di quel meglio pur di conservare ai posteri «Totò Diaboìicus», e persino «Che fine ha fatto Totò Baby?». Masolino d'Amico

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