La mezzaluna calante di Baku di Domenico Quirico

La mezzaluna calante di Baku Nella capitale azera la traccia più visibile dell'influenza di Ankara sono le telenovelas che inondano la tv La mezzaluna calante di Baku Tra le macerie del sogno panturco BAKU DAL NOSTRO INVIATO Il «Casablanca» è avvolto nello sconforto come in un grande drappeggio. Perfino i sorrisi delle ragazze sono meno voluttuosi del solito e gli sguardi dei croupier normalmente così acuti che paiono penetrare nelle tasche e trapassare i portamonete sembrano mansueti e appassiti. La stessa scena di delusa mestizia la troveresti in tutti gli altri night e casino dove la vecchia Baku elegante volge le spalle al mare e si costruisce girando su se stessa come una lumaca, tra orribili anonimi titani di cemento. Perché il padrone, il presidente Aliev, ha appena aggrottato, incollerito, le sopracciglia e ordinato di chiudere in una settimana tutti i casinò e i night del Paese: «Contrari allo sviluppo della cultura azera, imprese immorali che vengono utilizzate per lavare il denaro sporco». Moralismo comprensibile in un Paese distrattamente sciita, ma dove i mullah occhieggiano bramosi, sperando che faccia presa l'acido corrosivo dei loro pregiudizi? Molto di più: un frammento del Grande Gioco, della perfida e torbida rete di intrighi con cui tanti, troppi cercano di avviluppare le ricchezze del petrolio. In Georgia hanno appena tentato di uccidere il presidente Shevardnadze per qualche chilometro di oleodotto. Come qui: grandi disegni diplomatici ed economici si affiancano a piccoli misfatti oscuri dove è difficile decifrare comparse e burattinai. Come, ad esempio, a Sursuluk, una sperduta cittadina nell'Ovest della Turchia, lungo una strada dove ogni giorno centinaia di camion carichi all'inverosimile arrancano verso le piste dell'Asia centrale, assetata di merci dopo il lungo purgatorio sovietico. A un incrocio una Mercedes, inutilmente blindata, si scontra con un camion. Sembra un incidente come tanti. Ma non è anonimo il gruppo che viaggia sull'auto. Un ufficiale dei servizi segreti turchi a fianco di un boss della mafia turca, Abdulah Chatly, super ricercato dall'Interpol, con la sua amante. Tutti morti. Ma la presenza più imbarazzante è quella dell'unico sopravvissuto: un deputato del partito dell'ex premier Tansu Ciller. Nelle mani della polizia restano impigliati documenti scottanti, che ora i militari di Ankara, nemici della Ciller, regalano, opportunamente, alla stampa. Per esempio le prove dell'attività di un ufficio affari riservati della Ciller legato alla mafia azera che aveva finanziato con alcuni milioni di dollari un fallito colpo di Stato nel '95 contro Aliev, considerato poco favorevole agli interessi turchi. E c'è anche la rivelazione, ancor più sugosa: il figlio di Aliev avrebbe perso sei milioni di dollari negli allettanti casino di un altro mafioso turco. A Baku, dove come in tutti i regimi dispotici le voci tengono il posto delle notizie, tutti giurano che è questa la vera causa del furore moralista del padre. Intrighi, smagliature della corruzione: le miserie di un grande disegno politico. Perché otto anni fa im premier di Ankara proclamava che il ventunesimo secolo sarebbe stato turco; e la Cia e la Rand Corporation confermavano convinte: «La Turchia è il centro geopolitico assoluto del nuovo mondo che emerge in Asia centrale e nel Caucaso». Settantacinque milioni di ex sudditi dell'impero rosso erano infatti di ceppo turco: perché non guidare allora questi fratelli sepa¬ rati dalla storia verso la terra promessa del capitalismo, magari strappando in questa anabasi qualche vantaggio? In fondo molti dei pensatori che hanno inventato la Turchia mo¬ derna, da Gaspirali a Sadri Maksudi, hanno affinato le idee proprio qui, sulle rive del Caspio, alla nodosa scuola del bastone degli zar. Il piano di Ankara era astuto: conquistare prima i cuori e gli spiriti , per poi passare aU'influenza politica e al mercato. Qui, in mezzo a una confusione infinita di idee e di cose, non più russi ma non ancora musulmani, gli azeri sembravano materia plasmabile. E' come leggere un libro già scritto: il sogno panturco di Enver Pascià contro la tentazione europea di Mustafa Kemal, il ritorno alle steppe decrepite contro la laicità occidentale. Questa volta a giocare la partita sono, da una parte, il partito islamico di Ankara che cerca nel Caucaso una scorciatoia per aggirare le mura solide dello Stato laico; dall'altra i generali che predicano i tradizionali legami con l'Europa. Sette anni fa Mosca era fuori gioco, Washington distratta, l'Iran scatenava i suoi mullah, l'Arabia Saudita i petrodollari. Ankara impiegò... un satellite per le telecomunicazioni. Se apri la televisione azera, scopri che due dei quattro canali rovesciano ore e ore di telenovelas turche appena intervallate da lunghe danze di dervisci, avvolti nelle loro vesti candide. Ebbene: è tutto quanto è rimasto del nuovo panturchismo, insieme alle bandiere con la mezzaluna e la stella che garriscono sode sui nuovi palazzi costruiti nella capitale dalle imprese di Ankara. Leyla Yunusova, leader del partito Vahdat e dell'Istituto per la democrazia, aggiunge nuove acredini: «Nell'edilizia i turchi la fanno da padroni e intanto i nostri operai sono senza lavoro, lo stesso discorso vale per i beni di largo consumo e i negozi, dove la loro concorrenza ci schiaccia. Non è la strada buo na, credetemi. I nostri modelli e le nostre speranze sono altre, non certo Ankara». Enver Pascla, fremente rivoluzionario da salotto, un virtuoso dei fallimenti ucciso nel '22 non lontano da qui mentre cercava di strappare il suo sogno alia forza dei bolscevichi, è stato di nuovo sconfitto. Le spalle economiche di An¬ kara erano troppo fragili per sostenere queste nuove economie. E il giacobinismo di Atatùrk, la sua modernizzazione autoritaria e accelerata erano troppo appannati per fronteggiare nuovi scenari politici dove le certezze appassiscono e invecchiano, mentre i dubbi conservano una freschezza inalterabile. Aboulfaz Eltchibey porta all'occhiello un prezioso distintivo in oro del «padre dei turchi». E' l'uomo che ha lottato con coraggio contro il colonialismo russo, è stato presidente prima che il machiavellismo di Aliev, rodato dal Kgb, gli rubasse il potere: «La via turca? Sono prima di tutto valori culturali. Anche noi, come i turchi di Istanbul, abbiamo rifiutato l'alfabeto arabo e siamo passati dal cirillico al latino. Sul piano politico il modello laico di Atatùrk resta una ipotesi Vanda. Ma oggi ci vuole qualcosa di più: i turchi, tutti i turchi, noi e quelli di Ankara, siamo condannati alla democrazia se vogliamo crercere e soprawi vere». Così il pendolo delle ideologie torna violentemente indie tro e propone il ritorno all'an ticq piuttosto che una facile adozione del nuovo. Arkam Ajlislj, uno dei più famosi scrittori azeri, oggi scrive solo brevi racconti in cui ricorda antiche ombre, come Gagarin e Snolo kov. Pone con rabbia e commossa passione la domanda se una idea che guarda indietro nel tempo, che sembra preferi re ciò che è stato e esclude quello che verrà, sia di per se stessa qualcosa di negativo «Sono deluso. Ho creduto, creduto con tutte le mie forze, senza fare calcoli, creduto nella democrazia, pensato che l'America fosse più sincera della Russia. E adesso vedo che non è meno cinica della Russia. Era un sistema immorale e perverso ma senza la Russia noi sa remmo uno Stato orientale uno Stato arabo. Certo non rin nego l'indipendenza. Dei russi potevemo dire il peggio, ma aprivano scuole, tutti i villagg anche i più piccoh" nei tempi sovietici avevano una biblioteca. Adesso sono devastate, vuote. Lo stato delle scuole è indescrivibile, tra 20 anni ci sarà una generazione che non saprà né leggere né scrivere. Prima vedevo in televisione i film di Fellini; adesso le telenovelas. Rispondetemi per favore: è un progresso?». Domenico Quirico Uno scrittore: l'Urss era immorale ma in tv c'erano i film di Fellini SULLE VIE DEL GRANDE GIOCO A sinistra, una piattaforma petrolifera al largo della capitale dell'Azerbaigian Baku. Sopra, una immagine del centro della Baku moderna