Baciati e maledetti dall'oro nero

Baciati e maledetti dall'oro nero REPORTAGE SULLE VIE DEL GRANDE GIOCO La produzione è in declino, ma l'Azerbaigian è più che mai teatro di intrighi internazionali Baciati e maledetti dall'oro nero A Baku, nell'anno 125 dell'era petrolifera BAKU DAL NOSTRO INVIATO Ci sono al mondo luoghi che sono dei rompicapo per i professori di storia e geografia. Uno di questi posti è Baku. Nei secoli è appartenuta ai tartari, ai persiani, ai turchi, ai russi, ha visto nelle sue strade sfilare gli eserciti del Sultano e quelh di Lenin, i soldati inglesi e i cosacchi dello zar; ogni volta i pittori hanno dovuto dipingere nuove insegne e la gente, ogni volta, ha ricevuto nuovi passaporti; ha cercato di imparare nuove leggi, nuove lingue e nuovi pensieri. Qui vivevano fianco a fianco russi e ebrei, armeni e turchi. Oggi Baku è la capitale di uno Stato autonomo sgusciato dalle serpentesche spire dell'Urss, un grande serbatoio di petrolio alle soglie di quelle immensità dell'Asia dove popoli interi un tempo sparivano inghiottiti dal nulla. E dove la gente di nuovo ha la sensazione di vivere su una frontiera alla fine di un mondo e all'inizio di un altro mondo. Ancora una volta, tra civettuoli palazzi che laboriosi sudditi tedeschi costruirono per la gloria degli zar, pullulano quantità di avventurieri e di agenti segreti, petrolieri texani e impresari di irredentismi e di rivoluzioni, trafficanti di influenze, mafiosi e affaristi tenebrosi che in una volta inseguono mille intrighi. Balakhany, la penisola dei pozzi petroliferi che sfuma in una periferia di case lebbrose, è un posto dove svanisce la consapevolezza del tempo e sentiamo risalire dall'abisso la Storia. Sullo sfondo di un orizzonte torbido, sotto un anemico sole ingannatore, a perdita d'occhio, migliaia di piccole torri spalancano al vento le loro architetture di ferro arrugginito. Migliaia di trivelle di un azzurro sfregiato dalla muffa e dal glasso continuano a beccare ritmicamente, ostinatamente, il tubo che le collega alla grande spugna impregnata di petrolio che giace, sempre più sottile, sotto terra. Acque avvelenate, bitumose, senza vita stringono in una irrimediabile morsa di fango tutto questo fragile vecchiume, uno dei più antichi giacimenti petroliferi del mondo; fango e immondizia, costruzioni sfibrate dal tempo con le viscere aperte, greggi di pecore sporche, contaminate di nafta, che si ammucchiano sotto le torri per cercare riparo dal vento. Qui estraggono petrolio da 125 anni, un tempo c'erano dodicimila pozzi, adesso sono ridotti a seicento e per succhiare alle profondità della terra le ultime gocce bisogna trivellare con sempre maggiore forza, spingere le macchine fino all'estremo, fino a quando si spezzano. E i motori che muovono questo eterno pendolare meccanico formano una continua melopea, come il ronzio di un immenso alveare. E' lo scenario di ciclopiche battaglie, per questi pozzi i Soviet lottarono con gli inglesi nei giorni infuocati della Rivoluzione non ancora vittoriosa, qui Stalin fece le prime prove di incendiario, tra queste trivelle preistoriche elaborò le sue trame l'inafferrabile Einhorn, il signore del petrolio rosso; dalla stanza 184 del palazzo delle Gpu alla Lubianka inventava mortali sgambetti per i suoi grandi rivali, l'ex droghiere John D. Rockfeller, e Henry Deterding, il Napoleone del petrolio inglese che divideva il mondo come le quote di un consiglio d'amministrazione. Questa è la città di Gulbekian, un armeno magro e miserabile che divenne l'agente dei Rothschild e un misterioso Rasputin dell'oro nero. A Baku era nata la splendida figlia del generale russo Kuddajarov, una bellezza caucasica come quelle che trovi oggi nei McDonald della città, leggiadre comunque a forza di essere fresche, di avere grandi occhi. Era la seconda moglie del padrone della Shell. Gulbekian la conobbe e se ne innamorò. Per lei iniziò una guerra mortale che ridusse sul lastrico milioni di risparmiatori, immiserì popoli interi, scatenò nefandezze e delitti. Balakhany è stata una epopea. Stakanovisti scendevano nudi nei pozzi per riparare le trivelle e salvare la produzione (ed evitare di essere fucilati come sabotatori). Surkhay Kerimov ha lavorato per 50 anni in questi pozzi con la sua l'accia grigia e le mara callose che trasudano nel freddo l'antica miseria sovietica: «Per chilometri e chilometri qui intorno tutto è trivellato, non è rimasto più nulla da scoprire fino a duemila metri sotto terra. Qui, tanti anni fa, il petrolio zampillava in colonne altissime, oggi non basta più nemmeno il gas ad alta pressione». «Eppure - aggiunge orgoglioso - la produzione si è stabilizzata, e se tutto va bene, magari con impianti nuovi, abbiamo lavoro ancora per ottant'anni». Nella desolazione flagellata dal vento un geologo avanza arricciandosi in una giacca sudicia e stracciata: «Noi siamo residui dell'Urss - mormora - sa quanto guadagna un ingegnere come me? Cento dollari al mese. Un collega occidentale che viene qui con i consorzi che sfruttano i nuovi giacimenti in mare ne prende diecimila. C'è un pozzo che funzionava nel 1870 e che ancora dà petrolio. Siamo preistoria, rimasugli patetici. Gli impianti sono vecchi, agonizzano, ogni tanto si rompono. Sopravviviamo, ecco tutto, ed è già molto». Chiedo se mai, un giorno, questo diventerà un Kuwait. Mi guarda con rabbia, il suo «niet» è duro come una bestemmia. L'Azerbadjan è un posto dove si può studiare, un po' come il botanico che si accinge a una classificazione, il deserto di rovine che segue alla morte delle ideologie e degli imperi, si può vedere in maniera eloquente ciò che il petrolio può fare di un popolo. Come in tutta l'Asia centrale eventi immensi stanno maturando ma con lentezza, nell'incapacità e nell'incoscienza. Un formicaio umano è stato strappato al torpore dell'Urss, sconvolto dal grande ^volgimento. Questa è gente che non ha più sogni e ha cancellato tutte le speranze. Alla fine non è rimasto che il petrobo: come sogno, come ideologia, come garanzia, cambiale, speranza. Neft, neft, neft, senti ripetere ovunque, tutti bevono questa parola incisiva che è uguale in russo e in azero. Il vecchio ordine è crollato in pochi mmuti, come un muro decrepito. Non c'è stato il tempo per formare le nazioni, per accumulare attraverso gli anni caratteri, interessi ideali comuni, per capitalizzare quella eredità indivisa tra gli uomini che rassoda una società. Sono nati Stati finti, inventati da uomini astuti. E l'autoritarismo, che assomiglia purtroppo a quello antico, funziona da camera di compensazione in cui si può aspettare che vengano ristabihti gli equilibri sconvolti. Gheidar Aliev, per esempio, l'emiro del Caucaso, l'uomo dai rubinetti d'oro. Un vecchio dirigente del Kgb, un consumato Machiavelli del Politburo che sembrava scomparso nei gorghi della perestrojka, una stella che aveva brillato flebilmente nel firmamento ormai freddo dell'Urss. Eppure è lui che oggi guida il Grande Gioco del petrobo. Con l'accorta diplomazia che ha imparato al Kgb usa gli americani per far paura ai russi e gli iraniani per spaventare russi e americani, ammalia gli occidentali con il suo charme e taglia le teste degli oppositori con lo stesso sorriso implacabile con cui firma i contratti. Nel palazzo dell'Ente petrolifero di Stato i dannati di Balakhany sembrano abeni. Immense carte geografiche materializzano bollettini di vittoria, ogni millimetro del Caspio è irto di bandierine: giacimenti da esplorare, piattaforme da costruire, oleodotti da adagiare sul fondo di queste acque grigie e stanche per rubare al sottosuolo milioni di tonnellate di gas e di oro nero. In queste sale ingombre di computer hanno firmato il contratto del secolo, quello del giacimento di Chirag. Il vicepresidente della compagnia (il presidente è naturalmente il figlio di Aliev) Khoshbach Jusifzade è un tipo magro, grigio e grinzoso con dei baffi da gatto che sembra abbinato ai trionfi: «Quando abbiamo lanciato il bando per il primo consorzio petrolifero aperto agli stranieri abbiamo spedito l'invito a 16 grandi gruppi occidentali. Hanno risposto solo in sei. Forse avevano dubbi sulla nostra stabilità. Adesso fanno la fila per strappare nuovi contratti. Il problema degli oleodotti che costano o sono controllati da altri Stati? Lavoro in questo campo da 44 anni, non ho mai visto il petrolio aspettare». Zardoucht Alizabeh invece è un uomo piccolo e mite, l'uomo giusto per narrare il lato oscuro di questo Eldorado ammaliante. «Noi dell'opposizione cerchiamo di spiegare alla gente che cosa è la democra- zia, come funzionano gli Stati dell'Occidente. Qui nessuno sa di che cosa si tratta, è come amare una donna solo attraverso dei racconti. Ascoltano i nostri discorsi, poi tornano nella vita reale, vedono che comanda la mafia, il potere esecutivo, la polizia, il Kgb; e allora pensano che sono tutte 1 avole; che forse si realizzeranno tra alcune generazioni. Siamo un piccolo partito, un gruppo di intellettuali, ma noi sappiamo che se non ci battiamo oggi neppure i nostri figli vedranno nulla di tutto questo. Qui ci sono violazioni continue dei diritti umani, contro l'opposizione ci sono la censura e la diffamazione, i nostri candidati non possono partecipare alle elezioni e la Corte suprema respinge costantemente i nostri ricorsi. Eppure quando al potere c'era il Fronte popolare, "i democratici", la situazione non era diversa. Io sono stato uno dei fondatori del Fronte, ne ho scritto il manifesto elettorale. Ebbene, per ini articolo di critica un ministro mi ha aggredito con la pistola in pieno Consiglio dei ministri e mi ha fracassalo la testa. Questo perché anche loro erano gli eredi del sistema sovietico, hanno assorbito la facciata della democrazia ma la sostanza era terra incognita, la loro natura intima era sovietica». Nell'Eldorado del Caucaso lo stipendio medio è di 20 dollari, ma ogni sera nei casino ci sono persone che perdono centomila dollari senza battere ciglio, il petriolio e il gas sgorgano a fiumi ma due terzi del Paese sono senza luce e senza riscaldamento, il 50% dell'economia è gestito dalla borsa nera, i contratti petroliferi arrivano in Parlamento già firmati e i benefici per la popolazione sono annunciati, forse, per il 2015. Alizabeh vuole farmi un regalo. Tira fuori un manifesto elettorale stampato quando era candidato per le Presidenziali: «La tipografia di Stato me li ha consegnati... il giorno dopo le elezioni. Ne ho una stanza piena, li conservo per il giorno in cui qualche cosa cambierà». Domenico Quirico Nelle acque avvelenate della penisola di Balakhany migliaia di trivelle preistoriche lavorano senza tregua Il Presidente firma a catena contratti con l'Occidente. Ma il salario medio è di 20 dollari, e due terzi del Paese non hanno luce né riscaldamento La selva di pozzi petroliferi della penisola di Balakhany e il leader azero Gheidar Aliev RUSSIA y--\ 3>l Ó*£. là RUSSiÀ^x S£j \—J ^ AZERBAIGIAN NAGORNI - KARABAKH aSJEPANAKERT *>\? ^ ^ MAR CASPIO m AZERBAIGIAN IRAN ?