E' UN CAPRICCIO ITALIANO OPPORRE PASOLINI A CALVINO di Sergio Maldini

E' UN CAPRICCIO ITALIANO OPPORRE PASOLINI A CALVINO E' UN CAPRICCIO ITALIANO OPPORRE PASOLINI A CALVINO NA strana impazienza percorre la nostra Repubblica delle lettere: l'impazienza di storicizzare. Spesso ciò conduce a valutazioni improprie, i valori presunti diventano valori autentici, la politica della letteratura vincendo quasi sempre sulla letteratura. Forse la «conchiglia fossile» dell'abate Zanella non sarebbe così accettabile dagli studenti liceali, se non fosse stata consegnata alla storia da un profilo critico in ultima analisi autoritario. Ciò che accade oggi nella smania classificatoria per Pasolini e Calvino è abbastanza esemplare: chi difende l'uno o l'altro dei due scrittori, in effetti difende se stesso e un suo modo di concepire la vita. Pasolini e Calvino risultano l'alibi di due culture, se così possiamo esprimerci, ma è fuorviarne stabilire una «superiorità», in virtù per altro di una precettistica confusa o sbagliata. Ho letto lo splendido articolo di Ferdinando Camon sul libro di Carla Benedetti Pasolini contro Calvino («... Pasolini legava il suo scrivere al suo vivere e al suo morire»): rivendicazione non già di un vitalismo protoromantico con degenerazioni di tipo dannunziano, ma coscienza morale del mondo, sino allo scandalo e al dolore della propria esistenza. Tuttavia non restringerei a due poh, Pasolini e Calvino, la letteratura italiana di questi ultimi anni: Volponi, ad esempio, non credo abbia una quotazione più bassa di Calvi¬ no, ed è di gran lunga meno dimenticabile. Di certo nella letteratura vi è sempre qualcosa di truffaldino: la letteratura come finzione, come falsificazione della realtà. Ma a parte questo, ciascun consumatore di romanzi tende a ravvisare nel narratore che legge una propria identità, o una consonanza, se non addirittura un'ideologia. Un romanzo, stando all'interpretazione manniana di Lukacs, è sempre uno «specchio dei tempi», noi siamo padroni di scegliere uno «specchio» che ci emozioni o che ci arricchisca, qualunque sia la sfibrante ricerca dello scrittore. Oggi assistiamo a una specie di iconoclastia: Moravia non vale niente, Pratolini neppure, Pasolini si salva con «Petrolio» in quanto incompiuto, poiché l'incompiutezza, e non altro, sarebbe lo stemma del grande narratore. L'«Ulisse» di Joyce è un'opera aperta, non così i «Dubliners», e siamo sicuri che Proust fosse un romanziere di avanguardia? Stimo molto il mio amico Guglielmi, ma non condivido la perentorietà di certe sue scelte critiche («Corriere della Sera», 22 gennaio). Essendo un intellettuale intelligente, Angelo è anche un po' ondivago: una volta dice che opera «soltanto sulla lingua», un'altra che occorrono buoni materiali come «la legna per fare il fuoco». Talvolta gli consegnano su un vassoio di plastica un Nulla grande come una casa, e lui molto generosamente (e signorilmente) crede trattarsi di una rivoluzione linguistica. In effetti, dalla vecchia estetica di Croce al si¬ gnificante-significato degli strutturalisti, il problema è sempre quello: l'immedesimazione tra forma e contenuto, per cui Svevo che scriveva sgrammaticato è un grande scrittore, al di là della formalità della lingua, in quanto il tema e l'espressione coincidono. Così oggi la drastica esclusione di Moravia fa obiettivamente pensare. Moravia è statò un validissimo narratore, e possedeva una virtù che quegli sciamani del gruppo '63 non hanno mai capito: la leggibilità, appunto, e una precisa visione del mondo. Dico questo perché un ubi consistam ideologico bisogna pure averlo. C'era da trasecolare a Palermo una trentina di anni fa allorché uno del gruppo '63 privilegiava la tematica dello scartamento di una caramella alla guerra in Vietnam (e anche questo, ahimè, era un guasto del crocianesimo troppo avanzato). il gruppo '63 fu avanguardista, come affermato e gridato? In virtù della «contemporaneità» della sto¬ ria (Carr, Collingwood) una Crociata vista nel Settecento non è la stessa Crociata presa oggi in considerazione dagli storici, e così il gruppo '63 di quegli anni ruggenti non è quello considerato oggi. L'esperienza del '63 fu molto positiva dal punto di vista critico, ma assai povera di risultati poetici e narrativi. Capriccio italiano di Sanguineti, tediosissimo romanzo, doveva essere letto nelle piazze di paese, secondo una manchette editoriale. Si diceva no a Moravia, e magari sì a Balestrini: l'assurdità sfiorava la goliardia. Facevano parte del grup- po '63 anche Eco e Arbasino, che non erano affatto scrittori di avanguardia, ma scrittori assolutamente conservatori. Pasolini e Calvino possono convivere nel misterioso spazio celeste in cui si ritrovano. Sì, Calvino era perfetto, preciso e nitido nella restituzione letteraria, e nella vita aveva sempre le cravatte con il nodo giusto. Pasolini no. Andava in bicicletta nelle pianure friulane, in quelle incantate estati del dopoguerra, l'aspetto di un contadino ottimista, e alternava il gioco decalcio alla lettura di de Saussure (qualche decennio prima deglstrutturalistil). Calvino era un'idea della vita, Pasolini la vita toucourt. Al di là di qualunque strumento letterario, fra avanguardia conservazione, fra scrittori veri scrittori inautentici, si giunge a un certo punto della vita in cui una cultura, senza il minimo sospetto di felicità, è una cultura defunta. Sergio Maldini Chi difende l'uno o l'altro in realtà difende se stesso Pier Paolo Pasolini Sergio Maldini interviene nel dibattito che si è aperto sul saggio di Carla Benedetti «Pasolini contro Calvino», pubblicato da Bollati Boringhieri, recensito su Tuttolibri 1092 da Guido Davico Bonino

Luoghi citati: Palermo, Vietnam