Storie di Città

Storie di Città Storie di Città CARISSIMA, ho trascorso ore felici immerso nella lettura di un libro di ricordi torinesi scritto da Gino Moretti, un esperto di dinamica dei gas ad alta velocità che da molti anni vive negli Stati Uniti. Il libro, stampato a cura dell'autore in un'edizione fuori commercio, mi è stato donato da suo nipote, il noto disegnatore e caricaturista Franco Bruna. Il titolo sembra uscito da una canzone di Enzo Jannacci: «Volevo tanto fare il tramviere ma mi hanno cambiato i tram» e l'autore dimostra pagina dopo pagina di riuscire a ritrovare lo sguardo di se stesso bambino con una minuzia e un'attenzione ai particolari che hanno del prodigioso e che si spiegano in parte col fatto che l'autore, andando a vivere lontano, ha fissato una volta per sempre l'esperienza torinese nella sua memoria. Inoltre un'arguzia sottile percorre sotto traccia tutto il racconto, deliziando il lettore. Te ne dò qualche esempio: «Abitavamo in una strada di bruttezza esemplare che si chiamava via della Misericordia, e papà la chiamava via Miseria». «Il maestro Cerato era cieco e suonava le sue canzonette senza che neanche dovessero girargli i fogli». «Il ricordo più vivido di Vannuccini (un professore del ginnasio) per me è associato alle macchie di vino e di uovo che adornavano i nostri compiti, da lui corretti fra un boccone e l'altro al Sollazzo Gastrico di via Palazzo di Città». Gino Moretti nasce nel 1917 da un padre che è in magistratura e che ha già 42 anni. Il ritratto del padre è esilarante, cito qua e là: «Ero magrissimo, tutto pelle e ossa. Papà mi vedeva almeno tisico, destinato a morir giovane, come il suo caro Guido Gozzano. Lui aveva le sue idee sulla durata della vita. I grandi uomini muoiono a cinquantasei anni, diceva, e citava Dante e Napoleone. Quando arrivò a cinquantasei anni scoprì con giubilo di non essere abbastanza grande e visse altri ventiquattro anni tranquillo. Per darmi un po' d'allegria prima della mia morte prematura mi portava sul cavalcavia pedonale di Porta Nuova a vedere i treni. Alla sera, se non mi addormentavo papà mi leggeva qualcosa: di solito, i verbali dei carabinieri. Noi si parlava piemontese, e il mio italiano si formava stentatamente sulla prosa dei carabinieri: "Ambo dell'Arma a piedi", "Vestiti dell'Onorata Divisa", e "Il malvivente oppose resistenza, e fu giocoforza arrestarlo"». «A scuola il mio italiano andava migliorando, ed ora dovevo adoperarlo anche in casa ("Parla nen piemonteis!", urlava mio padre quando ricadevo nel dialetto)». Sul banco del farmacista Bosio «c'era un cartello che dice¬ va Hatu e io avevo chiesto a papà cosa voleva dire e lui mi aveva risposto secco "mi sai pà"». «Il nonno ha una domestica scontrosa e lugubre che in famiglia hanno ribattezzato Sibidoria. Un giorno un ospite le dà della misantropa. Quando esce, lei chiede al nonno: "Cosa c'a veul dì, misantropa?"» «Eh, - rispose il nonno - vuol dire una donna molto seria che tiene bene la casa». Ai funerali del nonno, morto nel gennaio del '29, l'autore ricorda «due lunghissime file di bambine, il primo gruppo vestito di verde, e il secondo vestito di giallo (i l'orna ciamà le verde e le giaune, per fè pi foson). Dietro il carro «andavamo tutti a testa china; così era anche più facile vedere a tempo e scansare le buse dei cavalli». Ma dove Gino Moretti raggiunge vertici di autentica poesia è quando racconta della sua passione per i tram. Senti com'è preciso e insieme affettuoso il ritratto del manovratore. «Il manovratore stava in piedi sulla piattaforma, che ai fianchi non aveva porte; quindi d'inverno doveva portare una pesante palandrana e una sciarpa al collo. Ma aveva anche un berretto con la visiera e sembrava il capitano di un battello, sul ponte di comando. Per giocare, aveva alla sua sinistra un enorme scatolone di metallo, su cui erano scritte le misteriose parole "Siemens Shuckert Werke". Ih cima allo scatolone c'erano due leve, una piccola che il manovratore portava seco quando invertiva la marcia e una grande (la "manovella") con un gran pomello di legno lucido che il manovratore accarrezzava con la sua grossa muffola di pelle. La manovella si muoveva a scatti; prima attraverso tre o quattro posizioni, marcate "Serie", che difatti erano molto serie perché servivano a far partire il tram con tutta la gente sopra, adagio adagio. (...) Infine il manovratore doveva pestare il pedalino del campanello per far scostare i carri e destare i pedoni insonnoliti. In casi estremi, poteva lanciare cortesi avvertimenti orali, come "T sesto ciorn? Gaote da lì, dola! Va a devia i ciap!" o parole più sconvenienti ("Son sempre irritati i manovratori - diceva papà - perché respirano l'ozono")». Chiudo il libro con il rammarico che sia già terminato e con due sogni: il primo è che l'Atm offra a questo cantore della poesia dei tram l'opportunità di guidarne per una volta uno di quelli d'epoca e il secondo che un editore di cose torinesi pubblichi questo libro mettendolo a disposizione di tutti. Ti saluta il tuo affezionatissimo Felice Pautasso

Persone citate: Enzo Jannacci, Felice Pautasso, Franco Bruna, Gino Moretti, Guido Gozzano, Siemens Shuckert, Vannuccini

Luoghi citati: Stati Uniti