LO SGUARDO CHE INGANNA di Marco Belpoliti

LO SGUARDO CHE INGANNA LO SGUARDO CHE INGANNA Gli«Occhiacci» diGinzourg CCHIACCI di legno» di Carlo Ginzburg è un libro di saggi e deve il proprio titolo a un passo di Pinocchio («Occhiacci di legno, perché mi guardate?») che compendia il tema privilegiato del volume, quello dello sguardo, o meglio dello sguardo a distanza. Il primo saggio è dedicato allo straniamento, cioè al modo di vedere le cose senza dare per scontata la realtà («Per vedere le cose dobbiamo prima di tutto guardare come se non avessero senso alcuno: come se fosse un indovinello»). Questo scritto - e più in generale l'intero libro - riflette lo spostamento geografico del suo autore, che da dieci anni insegna stabilmente a Los Angeles e da lì osserva con rinnovata curiosità la sua stessa cultura e le sue tre radici remote: greca, ebraica e cristiana. Ginzburg scrive nella prefazione che (da famigliarità, legata in ultima analisi all' appartenenza culturale, non può essere un criterio di rilevanza. Tutto il mondo è paese non vuol dire che tutto è uguale, vuol dire che tutti siamo spaesati rispetto a qualcosa e a qualcheduno». In ognuna delle nove indagini i ifi gogni saggio si presenta infatti sotto le apparenze di una investigazione di idee - l'autore prova a definire le ragioni che hanno provocato la nascita di concezioni e comportamenti pratici riguardanti le immagini. Nel terzo saggio {Rappresentazioni. La parola, l'idea, la cosa) Ginzburg cerca di spiegare perché l'idea di immagine, che il cristianesimo ci ha aiutato a differenziare da quella di «idolo», sia collegata al tema della rappresentazione, e lo fa ripercorrendo gli studi sull'esposizione di manichini di cera, legno o cuoio che sostituivano sui catafalchi i sovrani defunti durante il Medioevo; mentre nel quarto risale alle radici scritturali del culto dell'immagine, per capire come sia accaduto che il cristianesimo, in origine avverso alle immagini, abbia poi prodotto un vero e proprio culto delle stesse. Sia che si occupi di mito o di storia, di letteratura o di antropologia, Ginzburg sembra attirato dal confi¬ ne che separa storia e finzione, mito e menzogna, ed è continuamente attento a sottolineare il prevalere di procedure astratte nella cultura umana. Inoltrandosi nella lettura, si è colpiti dallo spostamento progressivo dell'orizzonte interpretativo, sino a quando, nel penultimo saggio {Uccidere un mandarino cinese. Le implicazioni morali della distanza), l'idea stessa di straniamento si rovescia nel suo opposto: l'eccesso di distanza produce indifferenza e può condurre a comportamenti immorali, come sembrano dimostrare le vicende di un apologo sulla distanza, da Diderot a Sade, da Hume a Balzac. A pensarci bene, il titolo (Occhiacci di legno) contiene qualcosa di «perturbante», perché allude a uno sguardo inanimato, a un manichino o bambola che nei racconti fantastici appare dotato di capacità visive autonome; in verità, Freud nell'analisi di un racconto di Hof- fmann, ha dimostrato che è il nostro sguardo a rendere animati gli oggetti. In tutti i saggi ritorna un problema non facilmente districabile: il nostro stesso modo di guardare si basa su consuetudini mentali di cui non ci accorgiamo pur facendone continuo uso. E questo garbuglio è connesso con un altro problema che da tempo sembra interessare Carlo Ginzburg, quello dell'ebraismo: capire da dove nasca «l'ambivalenza dei cristiani nei confronti degli ebrei». Egli è infatti convinto che questa ambivalenza - o aperta ostilità - abbia prodotto molti dei cambiamenti culturali che ancora dominano il nostro paesaggio mentale. Ginzburg arriva a sostenere che il suo stesso modo di conoscere il passato è impregnato dell'atteggiamento di superiorità del cristianesimo nei confronti degli ebrei, gettando in tal modo un'ombra di sospetto sulle sue stesse procedure intellettuali (egli è un intellettuale ebreo di formazione atea e iUuminista). L'avversario diretto di Ginzburg è il relativismo, le forme culturali che tendono a sfumare la differenza tra finzione e storia. Così come nella prefazione a Miti, emblemi, spie (Einaudi, 1986), per spiegare le sue ricerche degli Anni 60 e 70 aveva parlato di analisi di fenomeni irrazionali «in chiave storica, razionale ma non razionalistica», in questo libro cerca di mantenere in tensione il punto di vista soggettivo - alla stregua di un narratore egli interviene in prima persona, con la pro¬ pria voce - e le verità oggettive e verificabili, garantite dalla realtà, su cui si fonda l'indagine storica. Forse è per questa ragione che i suoi saggi si reggono su una forma narrativa che appare anche retoricamente come la loro vera spina dorsale. Alla logica del ragionamento, Ginzburg affianca uno svolgimento che riecheggia la detective story, che è anche un modo per indurre un continuo straniamento nel lettore e per ridurre quel senso di distanza che le argomentazioni razionali generano. Per questo è molto interessante la conclusione del saggio dedicato allo stile, dove Ginzburg contrappone il punto di vista di chi assolutizza ogni singola opera d'arte, che «crea intorno a sé uno spazio vuoto» (Simone Weil e Adorno), e quello di chi, al contrario, ritiene che le opere dell'ingegno umano necessitino di una prospettiva storica, relazionale (Longhi). Ginzburg stima che sia impossibile sperimentare contemporaneamente queste due posizioni. Come nel famoso test percettivo del papero-coniglio, è impossibile vedere contemporaneamente sia l'uno che l'altro, la figura e lo sfondo; la sua conclusione è che «le due prospettive», che rappresentano due precisi stili del pensiero umano, sono unite da un «rapporto asimmetrico»: è possibile esprimere la visione assoluta attraverso il linguaggio della storia, ma, afferma Ginzburg, non il contrario. Marco Belpoliti Una lezione dì metodo: vedere le cose a giusta distanza, separare storia e finzione. L'esempio del rapporto tra cristiani e ebrei OCCHIACCI DI LEGNO Nove riflessioni sulla distanza Carlo Ginzburg Feltrinelli pp. 248 L 40.000 LO SGUARDO CHE INGANNAGli«Occhiacci» diGinzourg Carlo Ginzburg

Luoghi citati: Los Angeles