QUANDO L'ONOREVOLE FINIVA IN GALERA di Giuseppe Fiori

QUANDO L'ONOREVOLE FINIVA IN GALERA QUANDO L'ONOREVOLE FINIVA IN GALERA Gramsci vittima di uno stralunato ottimismo SCAMBIO MENTALE Urania n. 1302 Mondadori, 1997 VITA DI ANTONIO GRAMSCI Giuseppe Fiori Laterza, 1966 GRAMSCI VIVO NELLE TESTIMONIANZE DEI SUOI CONTEMPORANEI Feltrinelli. 1977 MMUNITA' parlamentare? Pare che Antonio Gramsci, sino al momento dell'arresto, continuasse a contare sulla tutela che gli conferiva il mandato parlamentare, presumendo che neppure un regime apertamente dittatoriale come quello mussoliniano avrebbe potuto calpestare le garanzie concesse ai membri delle Camere rappresentative. Nei giorni immediatamente precedenti l'arresto, avvenuto nella sera dell'8 novembre 1926, li dll li ili d t di pochi giorni dopo la proclamazione delle leggi eccezionali da parte di Mussolini e alla vigilia di un dibattito parlamentare che le sancirà definitivamente, emerge dai comportamenti di Gramsci un'indecifrabile contraddittorietà, pervasa da qualcosa che assomiglia ad una sorta di stralunato ottimismo. Atteggiamento abbastanza difficile da spiegare, soprattutto in un leader politico che viene ricordato, oltre al resto, per l'ammonimento diventato poi un luogo comune nella liturgia del discorrere comunista - a confidare nel pessimismo della ragione seppur controbilanciato dall'ottimismo della volontà. A voler spaccare il capello in quattro si è davanti, più che a stralunato ottimismo, ad un eclatante esempio di «panzaisrno» gramsciano. In cosa consiste il «panzaisrno»? Come ben ha spiegato Shekley in «Scambio mentale»: «Don Chisciotte pensa che il mudino a vento sia un gigante laddove Sancho Panza pensa che il gigante sia un mulino a vento. Il donchisciottismo potrebbe essere definito "percezione delle cose d'ogni giorno come entità rare e desuete". Il contrario di ciò è il panzaisrno, cioè la percezione di entità rare e desuete come cose di tutti i giorni». Eppure in quei giorni dell'autunno 1926 la violenza dello scontro politico, l'accelerazione liberticida del regime non potevano essere più eclatanti e, infatti, Gramsci le analizza con totale lucidità. Dopo l'attentato bolognese in cui il giovane Zamboni sfiora con un colpo di rivoltella Mussolini, finendo immediatamente linciato da zelanti squadristi forse spinti, oltre che dalla voglia di mettere in scena sacrifici umani, anche dalla fretta di tacitare - e per sempre - chi avrebbe potuto raccontare verità irraccontabili, la macchina autoritaria brucia i tempi. Scrive Giuseppe Fiori in quella sua «Vita di Antonio Gramsci» che, pubblicata da Laterza nel 1966, è ancora una delle tappe obbligate per la ricostruzione della vita del fondatore del pcd'I: «Il governo deliberava l'annullamento di tutti i passaporti, l'uso delle armi contro chi tentasse l'e¬ spatrio clandestino, la soppressione dei giornali antifascisti, lo scioglimento dei partiti e delle associazioni contrarie al regime. Era anche pronto un disegno di legge per l'istituzione della pena di morte del Tribunale speciale: la Camera avrebbe dovuto discuterlo e approvarlo il 9 novembre. In quella situazione estrema, sembrava a tutti che Gramsci dovesse mettersi al sicuro. Era stato predisposto il suo espatrio in Svizzera. Andò a Roma, con l'incarico di accompagnarlo sino a Milano, la moglie dell'amministratore de "L'Unità"..., Gramsci non ritenne di doverla seguire». Qui il biografo di Gramsci elenca una serie di interessanti motivi per spiegare la scelta del segretario del pedi. A tanti anni di distanza chi legge coglie un particolare che forse in quel frangente non era del tutto secondario: la militante incaricata di portare via da Roma Gramsci si chiamava Ester Zamboni. Un cognome che, in quei giorni, non doveva certo rendere facile percorrere la penisola pattugliata, in ogni stazione, in ogni convoglio ferroviario, da manipoli di squadristi. Comunque Gramsci non parte: «E' probabile - spiega sempre Fiori - che non credesse all'eventualità dell'arresto finché il mandato parlamentare gli garantiva l'immunità. Lo inducevano ad un ottimismo sbagliato gli ultimi sviluppi della situazione». E qui tema trattato da De Felice, Spriano e molti altri storici - viene introdotta la questione della «mo¬ zione Farinacci» pubblicata, il 6 novembre, dal quotidiano fascista «Il Tevere». Nella mozione viene chiesta la revoca del mandato parlamentare per i deputati dell'opposizione motivando il provvedimento con la diserzione dai lavori parlamentari derivante dalla scelta dell'Aventino. Nell'elenco steso da Farinacci e accluso alla mozione i deputati comunisti non sono inclusi visto che avevano da tempo ripreso a partecipare ai lavori parlamentari. Ed è per questo che Gramsci, la sera dell'8 novembre, convoca a Montecitorio una riunione dei deputati comunisti incaricando Riboldi di prendere la parola, il giorno dopo, in aula. Non è un compito da nulla. Pochi giorni prima, come ricorda Carlo Milanesi nel volume «Gramsci vivo nelle testimonianze dei suoi contemporanei», a cura di Mimma Paulesu Quercioli, Feltrinelli 1977, il deputato dell'opposizione Maffi viene affrontato in aula, durante un intervento, «dai Farinacci, i Giunti, gli esponenti delle squadracce fasciste che gli si avventarono contro e chi lo sputacchiava, chi lo schiaffeggiava, chi gli tirava la barba fino a fargli sanguinare il viso... Prendemmo - dice Milanesi - un taxi e mettemmo in salvo Gramsci in un'abitazione di piazza Cavour... Gli altri deputati venivano aggrediti e bastonati». Nelle stesse ore - racconta Silone sempre nello stesso volume di testimonianze - prende corpo un progetto per salvare Gramsci: s'interpella Kamenev, ambasciatore dell'Urss a Roma, per sondare la possibilità che il segretario del pcd'I possa trovare rifugio nei locali dell'ambasciata. La risposta è positiva ma Gramsci rifiuta: «Anche se l'ambasciata godeva dell'extraterritorialità - spiega Silone - e i fascisti non avrebbero potuto prenderlo, sarebbe stato certamente uno "scandalo": un dirigente comunista protetto dai "russi". Perciò non era d'accordo con questo piano...». Riboldi, dunque, ha tutte le ragioni per non essere convinto soprattutto quando, nella sera dell'8, apprende che Mussolini ha convocato Farinacci a Palazzo Chigi e gli ha chiesto di riaggiornare la sua mozione includendo nella Usta dei deputati da far decadere anche i comunisti perché, spiega il Duce, «la corona vuole così». Ma Gramsci insiste e Riboldi deve adeguarsi (ma anni dopo, in carcere, riandando a quei momenti si ribella ancora: «Fare il martire a lui non andava», rammenta il suo compagno di cella Umberto Clementi). Comunque, in quella sera dell'8 novembre, finita la riunione a Montecitorio Gramsci si dirige verso l'abitazione di via Morgagni dove è ospite dei coniugi Passarge. Alle 22,30 arriva la polizia in borghese: «Onorevole, è in arresto. Le spiace seguirci?». E' l'inizio di un lungo calvario. Oreste del Buono Giorgio Boatti Sùio al momento dell'arresto nutriva una fiducia assoluta verso l'immunità garantita ai parlamentari COMUNI ^ l'i-tòìONA^i 'M ,.t MEMORIE É UNITA SCAMBIO MUrania n. 1302 Mondadori, 19VITA DI ANGRAMSCI Giuseppe FiorLaterza, 1966 GRAMSCI V one Farinacci» bblicata, il 6 vembre, dal otidiano fasta «Il Teve». Nella moone viene iesta la revoca l mandato rlamentare r i deputati dell'opsizione motivando il ovvedimento con la serzione dai lavori rlamentari derivan dalla scelta dell'Aprogetto per salvare Gramsci: s'interpella Kamenev, ambasciatore dell'Urss a Roma, per sondare la possibilità che il segretario del pcd'I possa trovare rifugio nei locali dell'ambasciata. La risposta è positiva ma Gramsci rifiuta: «Anche se l'ambasciata godeva dell'extraterrito

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