Tra gli indios, aspettando l'attacco

Tra gli indios, aspettando l'attacco Nei cimiteri del Chiapas i superstiti della strage di Natale piangono: «L'esercito prepara la guerra» Tra gli indios, aspettando l'attacco Per Marcos «siamo alla soluzione finale» ACTEAL (Chiapas) DAL NOSTRO INVIATO Nel massacro del 22 dicembre - 10 uomini, 21 donne, 14 bambini - gli hanno ucciso il fratello maggiore, la zia e la cugina. Jesus, che ha pelle scura tzotzil, occhi neri, viso gentile, ha visto tutto e ancora adesso piange quando ricorda: «Hanno ammazzato i nostri fratelli, i nostri figli, proprio qui, sotto questi alberi. Ci sono ancora le scarpe di una bambina. Le vede?». Sono di plastica rosa, impastate dal fango. Qui il sole non arriva: la selva, che sgocciola umidità e calore, sale verticale. Siamo nella scarpata, 150 metri sotto al villaggio. I paramilitari di Chenalhó hanno cominciato a sparare dall'alto - ore 11 del mattino - poi sono entrati nella grande radura sopra di noi, dove le capanne, scheggiate e perforate dai colpi dei Kalashnikov, stanno sparpagliate dentro la rete dei sentieri e dei camminamenti: «Io sono scappato con la mia famiglia verso la grande strada, ma molte donne, con i loro bambini, sono venute a nascondersi qui. Li hanno trovati». Il pueblo maya, oggi, è in mano agli uomini delle basi d'appoggio zapatiste. All'entrata il cartello dice: «Tierra Sagrada», terra consacrata. Ci abitavano un migliaio di indios, ora la maggioranza di loro sta a quattro ore di cammino da qui, nel campo profughi di Polhó, insieme ai desplasados di altre 36 comunità spinte dal terrorismo dei paramilitari a lasciare le proprie case minacciate, invase, distrutte. Il campo di Polhó si estende a perdita d'occhio sulla grande onda verde degli Altos: 7 mila profughi senza nulla - se non i ricordi, qualche coperta e i teloni di plastica per la pioggia - respirano l'aria ammalata della guerra, la sofferenza della fame, il dolore senza via di scampo. Non c'è abbastanza cibo e l'acqua propaga la salmonella e la diarrea. Il sole è rovente e la notte fredda. Uno dei sette medici della Croce Rossa, arrivati qui a metà gennaio, mi dice: «Abbiamo abbastanza medicine, ma le medicine non servono se manca il cibo. Aspettiamo mais, riso, fagioli... I profughi sono denutriti, i vecchi e i bambini soffrono di disidratazione, denutrizione, infezioni intestinali». Quel poco che c'è arriva dagli aiuti internazionali europei e statunitensi. Gli indios - che praticano la non violenza e una ostinata non collaborazione - rifiutano il cibo portato dai soldati messicani, 50 mila uomini nell'intera regione, schierati lungo l'unica strada che attraversa questo lento inferno latinoamericano. Uno dei portavoce del campo dice: «Sono qui per occupare le nostre terre. Sono qui a preparare la guer ra. Noi non possiamo accettare cibo dai nostri nemici». E un indios con la faccia scavata dal sole: «Sono arrivati un anno fa. E mentre i para militari continuavano a incendiare le nostre case, i nostri raccolti, loro hanno costruito nuovi pezzi di strada per far arrivare le autoblindo, hanno fortificato gli accampamenti delle guarnigioni, moltiplicato i posti di blocco per controllarci». E aggiunge, proprio come in un antico racconto maya: «Hanno portato violenza, malattie, alcol e anche la prostituzione». Il disordine che si percepisce dall'alto - tende, fuochi, spazzatura, canali di scoio appena scavati, bambini che giocano, donne che lavano, uomini che tagliano alberi con i machete e piantano pah - è l'insieme di ogni minuscolo ordine che regola la sopravvivenza intorno a ciascuna tenda. Le tende sono quadrate, alte non più di un metro e mezzo. Il pavimento è la terra. Da un lato c'è il fuoco dove bolle l'acqua per il riso e il mais, dall'altro i giacigli. Ogni tenda, una famiglia che vuol dire almeno due anziani, poi i genitori, poi una nuvola di figli. In questo scenario da guerra che sgocciola sangue sul Ventunesimo secolo, le vittime hanno facce e gesti che risalgono alla nostra Era Moderna. Sono gli stessi Maya che 5 secoli fa dicevano agli spagnoli; «La terra ci ha fatto, la terrà ci seppellirà». Oggi raccontano: «Veniamo da Huveltic, siamo qui da due settimane. In paese non si poteva più vivere, i paramilitari ci sparavano nella notte. Mio padre lo hanno ucciso a ottobre, mia madre è morta dal dolore il mese successivo. Cosa ci serve? La pace e un po' di mais». Si avvicina una donna minuscola. Ha una figlia che le sta attaccata alla gonna. La bambina ha una piaga che le copre un polpaccio. «I medici la curano - dice - ma la piccola si gratta ogni notte. Vengo da Chilon. Mi hanno incendiato la casa, ci hanno rubato il raccolto del caffè, la macchina per cuocerlo, i machete e le zappe». Un altro indio: «Veniamo da Sitala. Ci hanno rubato le coperte, il cavallo, il mais macinato. Per cinque notti siamo stati attaccati, ma noi non abbiamo armi, non le abbiamo mai avute... Così ho preso mia moglie, i nostri sette figli e sono scappato». Raccontano la loro vita fatta di spiccioli. Per una giornata di lavoro guadagnano 15 pesos (un peso vale 250 lire). Dice un vecchio: «Come succedeva ai tempi di mio padre e del padre di imo padre, passavano i camion dei rancheros a caricarci ogni mattina e a riportarci a casa dopo il tramonto. Per lavorare devi pagarti il machete e il cibo. Solo l'acqua viene distribuita dai padroni». I campi della comunità, coltivati anche dalle donne, danno caffè, fagioli e mais. Ma sono gli intermediari mestizos a comprare i raccolti: 12 pesos per ogni cmlo di caffè, 2 pesos per ogni chilo di mais, 3 per un chilo di fagioli. «E quest'anno non avremo i raccolti - dice una donna che sta lavando due bambini dentro a un secchio di latta -. Non avremo nulla, neppure un tetto». E lo dice senza rabbia, a occhi spalancati. II contropotere zapatista - tra questa gente - è un'ombra rassicurante, anche se non c'è mito, né epopea. Come diceva il vescovo di San Cristobal de Las Casas Samuel Ruiz «Sono gli indios ad aver convertito Marcos, non il contrario». E' lui, il guerrigliero, l'ex professore marxi sta di Filosofia, ad essersi avvicinato al sentimento Maya, alla loro vi sione religiosa della vita che prevede la sofferenza prima della quiete (dell'anima e del corpo), l'ingiustizia prima della giustizia (tra gli uomini), l'oscurità notturna prima dell'alba (per i figli futuri). Con Marcos e attraverso Marcos, gli indigeni hanno ricominciato a parlare. In questi quattro anni - armi zapatiste in sonno - hanno chiesto, con un riverbero planerario, il riconoscimento dei propri diritti e della propria cultura. La distribuzione della terra. Le libere elezioni nelle comunità. L'insegnamento della loro lingua nelle scuole. Il disarmo delle formazioni paramilitari. L'intervento della commissione nazionale dei Diritti umani e osservatori europei. Ma dopo Acteal, ora che sono comparsi i campi profughi e l'esercito ha preso posizione in tutta la regione e il nervosismo del governo centrale cresce in ragione delle condanne internazionali, il cammino sembra più difficile. Si sa che ai bordi più a Nord della Selva, rifugio dei miliziani zapatisti, l'esercito messicano ha dislocato le sue truppe antiguerriglia, gli Arcoiris e i Bom, che si muovono veloci sugli elicotteri d'assalto Bell, attrezzati per la visione notturna e il combattimento. Martedì scorso Marcos si è fatto vivo con un comunicato: «Non crediamo alla volontà di pace del presidente Zedillo. I suoi militari stanno affinando le mappe, completando le informazioni», Parla, Marcos, di una schedatura su vasta scala. E in effetti, a ogni posto di blocco che abbiamo incontrato, c'è almeno un militare che fa ronzare una videocamera, mentre l'ufficiale annota i nomi di chi passa. Dice ancora Marcos: «Ci aspettiamo un nuovo attacco, la soluzione finale». Propaganda o realismo? Si vedrà, nelle prossime settimane, quanto conteranno le pressioni internazionali e se la fragilità del potere centrale saprà raddrizzare il piano inclinato imboccato dai militari. Jesus, nella scarpata di Acteal, non sa dire cosa succederà. «La morte ci ha già visitato, la violenza si è propagata come fa la pioggia, ha contaminato l'aria... Venga, risaliamo questo sentiero, lassù ci sono i nostri fratelli. Le faccio vedere il cimitero». (3-Fineì Pino Corrias Le scarpe rosa di una bimba: quel che resta del villaggio distrutto Settemila profughi rifiutano il cibo dai soldati messicani «Non vogliamo nulla da chi ha ucciso i nostri cari» Stillo IN fANOE feto*». Il comandante Marcos e lo spiegamento di truppe messicane nel Chiapas pronte ad attaccare

Persone citate: Casas, Parla, Pino Corrias, Samuel Ruiz, Zedillo