« Anche i lavoratori contro l'orario corto »

« Anche i lavoratori contro l'orario corto » « Anche i lavoratori contro l'orario corto » Fossa: adesso serve un taglio della pressione fiscale ■J L cameriere insiste, vuole I servirgli il risotto agli aspaH ragi. E lui: «No grazie, non mi tenti...». Pasto frugahssimo, per Giorgio Fossa, nella foresteria confindustriale deU'Eur. Poco pesce, verdure bollite, fine. L'affondo provocatorio è inevitabile, seivito sul piatto d'argento insieme alla spigola. Cos'è, presidente, siete in «penitenza» dopo tutti gh errori che avete commesso col governo? Fossa un po' sta al gioco, un po' no. «Penitenza? Ma vuole scherzare? E poi di quali errori mi sta parlando?». Ben, il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Micheli, non senza qualche ragione, vi invita a fare una sana autocritica, no? «Allora, vogho dirlo una volta per tutte. Questo governo ha fatto cose importanti...». Bontà vostra: da quando ve ne siete accorti? «Ma su, nessuno lo ha mai messo in dubbio! E' che buona parte di queste cose le ha fatte anche grazie al nostro stimolo: critico, a volte aspro. Ma riconoscetelo - a partire dal Dpef del '96 che non ci portava in Europa in poi - uno stimolo quasi sempre giusto, efficace». «Quasi», ha detto? «Sì, "quasi". Perché una volta, e su questo l'autocritica la faccio senza problemi, ci siamo sbagliati davvero, in occasione del rientro della hra nello Sme: abbiamo drammatizzato un cambio a 990 sul marco. I fatti ci hanno dato torto, perché l'export ha retto benissimo anche così. Ma anche qui, due rilievi. Primo: questa tenuta si deve soprattutto alla straordinaria capacità competitiva dimostrata dalle nostre imprese. Secondo: non abbiamo la controprova di cosa sarebbe successo se fossimo rientrati nello Sme, come noi avevamo chiesto, a quota 1000/1100 sul marco. E comunque anche oggi il nostro stimolo si rivela azzeccato». A cosa allude? «Da quanto tempo ci sentite ripetere: attenzione, la corsa verso Maastricht è ancora lunga, non finisce col traguardo del 2 maggio? Da quanto tempo ricordiamo che quella è una tappa intermedia, le difficoltà maggiori verranno dopo, perché dobbiamo restarci in Europa, con i conti in ordine e un'economia competitiva?». E allora? E' preoccupato per la trappola sull'oro? «No, quella mi è parsa una scelta discutibile, e non so quanto equa, di Eurostat. E poi guardiamo pure gh altri Paesi: in termini di finanza pubbhca, hanno fatto meno di quello che sarebbe stato necessario. E alcuni hanno fatto anche i loro bravi "trucchi contabili", come la Francia su France Télécom. Il problema, per noi, è un altro». E qual è? «Un po' tutti, in Europa, per ragioni politiche e sociah, hanno allentato la morsa del risana mento. Ma noi, purtroppo, non possiamo ancora permettercelo: questo deve essere chiaro a tutti. Oggi stiamo meglio, molto meglio di un anno fa. Ma non possiamo fermarci, non possiamo fare sa crifici solo per mantenere lo status quo. Noi abbiamo raggiunto l'obiettivo di un deficit inferiore al 3% del Pil. Per Maastricht ce l'abbiamo fatta, non possiamo non fidarci dei numeri. Ma ora ci resta la montagna più alta da scalare, per restare in Europa, e cioè il debito pubblico». Infatti c'è il piano Ciampi per dimezzarlo nel 2010, no? «Il piano Ciampi è convincente. Ma è anche molto, molto ambizioso, quindi altrettanto difficile da reahzzare. Presuppone una somma di avanzi primari di bilancio enormi nei prossimi 12 anni. Questo vuol dire che ci aspettano manovre ancora molto pesanti». E infatti il sottosegretario al Tesoro Giarda dice che, per mantenere gli impegni sull'euro, la pressione tributaria non può calare... «Ecco il punto. Credo sia necessario andare verso un calo della pressione tributaria, come del resto ha già promesso Visco. E bisogna rilanciare gli investimenti in infrastrutture, senza i quali il Paese non compete col resto d'Europa». E come si fa a fare manovre pesanti e a ridurre nello stesso tempo le tasse? «L'unica strada, visto che la riduzione della spesa per interessi non basta, è un taglio della spesa corrente. Con gli interventi strutturali su alcuni capitoh che, per mancanza di coraggio e per condizionamenti politico-sindacali, non sono stati fatti fino in fondo quest'anno. E poi un programma di privatizzazioni vastissimo, che comprenda non solo l'Enel e l'Eni, ma anche le banche e l'immenso patrimonio immobiliare dello Stato, a livello nazionale ma anche locale. Ma io mi chiedo: c'è la volontà di farle, queste cose? E soprattutto c'è la necessaria coesione pohtica per difenderle in Parlamento?». Si dia la risposta. «So che questa è anche la ricetta che il governatore della Banca d'Itaha Fazio ha proposto a Napoli, una settimana fa: tagli alla spesa corrente, flessibi¬ lità nel lavoro e riduzione dell'onere fiscale. E so che alcune ricette che il governo ci sta proponendo per ora vanno nella direzione esattamente opposta. Questo governo è un Giano bifronte: fa scelte riformiste e liberali come la riforma del commercio, e poi diventa dirigista, piazzandoti il diktat della legge sulle 35 ore». Micheli dice che si farà in tempi brevi. E lei che dice? «Aspetto una convocazione. Intanto martedì prossimo vado a Parigi, dal mio "collega" Ernest Antoine de Seillière, presidente della Confindustria d'Oltralpe, per rafforzare l'asse degli imprenditori di Itaha e Francia contro le 35 ore». Cos'è, una Santa Alleanza del Capitale? «No, è la Santa Alleanza del mondo che produce e che crea occupazione. Ma lei crede davvero che siamo solo noi imprenditori, a non volere la legge?». Caspita. A parte Bertinotti, di questa legge nessuno è entusiasta, ma tutti sono pronti a farla. Solo voi resistete. «Io non sarei così convinto». Non ci giri intorno. Scopra le carte, se ne ha. «Le anticipo i risultati di un sondaggio della Cirm, fatto su un campione significativo di 1273 cittadini italiani: sa quanti hanno risposto "sì" al quesito "sareste disposti a rinunciare all'orario legale di 40 ore in cambio di 35, e a rinunciare ai futuri aumenti di stipendio"?. Solo il 30%! Il 58% ha risposto "no". E aspetti, non è finita. Questa scelta divide anche gli stessi elettori di Rifondazione comunista: solo il 47% opterebbe per la riduzione a 35 ore, rinunciando alla prospettiva di futuri aumenti salariali, mentre il 42% preferirebbe restare a 40 ore. Infine, solo il 32% dei cittadini interpellati pensa che le 35 ore possano davvero creare nuova occupazione». Insomma, continuate a urlare il vostro «no» alla legge? «Mi pare che non siamo soh. Anche nel governo ci sono ministri autorevoli, come Ciampi e Dini. che la pensano come noi. E così pure il commissario Mario Monti. Da parte nostra, continuiamo a dire che una legge imperativa, generalizzata e uguale per tutti sull'orario ridotto è un suicidio economico». Siete accecati dall'«ideolo- gia», dice Micheli. «Noi? E' vero esattamente il contrario. La legge sulle 35 ore, come dice lo stesso Micheh, è un prezzo tutto pohtico pagato a Bertinotti per evitare la caduta del governo. Nessuno, nel governo e tra i sindacati, crede che questa legge serva come volano per l'occupazione. Per ragioni ideologiche, appunto, si usa strumentalmente il concetto del "tempo libero" da sottrarre al "tempo di lavoro", cioè si enfatizza il valore della "qualità della vita", che si recupererebbe riducendo l'orario». E non è così? «Andiamoci cauti, con questi ragionamenti. Noi possiamo anche ridurre il "tempo del lavoro", aumentando il "tempo libero". Ma se a questo si accompagna un minor livello di reddito, e quindi una minore capacità di spesa e di fruizione di quella libertà, la qualità della vita non migliora, anzi!». Concezione molto «salarialista» delle relazioni industriali... «No, concezione pragmatica di chi conosce le aziende e i lavoratori. Ormai è chiaro a tutti che l'equazione "meno lavoro a parità di salario" non è percorribile. Che spazio resterebbe ai contratti e alle imprese, per fare investimenti? Ci rimproverano che investiamo poco, ed è falso: ma come potremmo investire di più, con questo macigno che abbiamo di fronte?». Non è un alibi, questo? «Senta, per investire bisogna contare su una prospettiva più o meno certa. Qui, con la questione delle 35 ore, non abbiamo nessuna certezza sui costi». L'amministratore delegato della Zanussi dice che con l'orario ridotto a 35 ore dovrebbero chiudere tutti gh stabilimenti in Itaha: è vero o è una minaccia al governo? «De Puppi ha lanciato un segnale forte, di preoccupazione. Una legge che impone a tutti e in tutta Italia, dal 2001, di ridurre l'orario è un formidabile deterrente ad investire in questo Paese: per sopravvivere, le imprese che possono investirebbero in capitale, cioè in macchinari, a costo certo, piuttosto che assumere altri lavoratori, come invece Rifondazione vorrebbe far credere con la chimera dell'orario ridotto». Micheh dice: leggete le clausole dell'accordo con Bertinotti, capirete che non c'è nulla da temere. E' così? «La verità è che il governo, con quell'accordo, si è legato le mani anche sul piano giuridico: portare l'orario di lavoro legale al di sotto dell'orario contrattuale, come quel patto prevede, farebbe sì che le imprese, soprattutto quelle più piccole, se avessero esigenze produttive specifiche dovrebbero chiedere ai dipendenti il "favore" di lavorare di più, secondo i tempi previsti dai contratti. E i lavoratori, rifacendosi alla gerarchia delle fonti, potrebbero rifiutarsi. Sarebbe un disastro». E come se ne esce, allora? «Neh'unico modo possibile: con una legge non coercitiva, che non preveda diktat, che non inquini le relazioni industriali e non stravolga i principi della concertazione. Una legge programmatica, e basta. Se è così ci stiamo, se no non se ne parla. E non mi si venga a dire che l'accordo sulle 35 ore è servito a scongiurare la crisi di governo: perché se ora si deve tradurre nella crisi delle imprese, per il Paese ormai sulla sogha dell'Europa sarebbe un danno anche maggiore». Massimo Giannini INTERVISTA IL PRESIDENTE DI CONFINDUSTRIA