«No al regime dentro la Rai» di Guido Tiberga
«No al regime dentro la Rai» «No al regime dentro la Rai» Zavoli: la tv non può servire a creare consenso IL GIORNALISTA EX PRESIDENTE SERGIO Zavoli è entrato in Rai dal '47, è stato giovane radiocronista e presidente, inventore del Processo alla tappa e autore di grandi inchieste giornalistiche. Di battaglie intorno al cavallo di Viale Mazzini ne ha viste parecchie. Di una cosa è sicuro: le polemiche, alla Rai, ci sono sempre state. «Non ce n'era traccia soltanto nel periodo "archeologico" - ricorda - quando la Rai nasceva dalle ceneri dell'Eiar. Erano i tempi in cui Giuseppe Di Vittorio, il leader comunista della Cgil, esentava i lavoratori della Rai dagli scioperi nazionab perché, diceva, era inaccettabile che il Paese restasse senza notizie, comprese quelle sullo sciopero. Da allora, gli attacchi si sono fatti sempre più pesanti... Il culmine si raggiunse nel '74; quando Bernabei si dimise da direttore generale. Le polemiche si placarono, ma per poco, solo con la riforma del '75, che spostò il controllo del servizio pubblico dal governo al Parlamento, portando nel consiglio d'amministrazione i rappresentanti dei partiti d'opposizione. Allora si reclamava il "pluralismo" nel servizio pubblico, a costo di trangugiare una dose adeguata di lottizzazione: oggi si discute la qualità del servizio pubblico, fino a contestarne la legittimità». Secondo Maurizio Costanzo, «il pubblico decide da solo da chi farsi servire». Ha ancora un senso parlare di servizio pubbbco? «Più che una constatazione, quella di Costanzo mi sembra un'affermazione di principio, a prima vista incontrovertibile. Ma per quale via, se non quella dell'affidamento di incarichi e di responsabilità, si eserciterebbe la volontà popolare in fatto di programmi radiotelevisivi?». C'è l'Auditel. Non basta per capire che cosa vuole la gente? «Quello dell'Auditel è un controllo a posteriori, e io mi chiedo se può bastare. E poi chi proteggerebbe le minoranze di ogni genere - comprese quelle del gusto - dalla tirannide dei grandi numeri? E' tanto diversa dalla tirannide della maggioranza politica contro cui metteva in guardia Tocqueville?». Dottor Zavob, sia sincero: «questa» Rai è ancora un servizio pubblico? «Credo di non cedere a un pregiudizio se dico che l'animus del servizio pubblico è presente soprattutto nei servizi informativi. Certo, quando si deve competere con la concorrenza per la pubblicità, i programmi pagano un certo pedaggio...». Quando lei era presidente, l'Auditel non esisteva. Era più facile governare la Rai senza la paura di vedere la «Corrida» davanti a «Fantastico»? «Non sono stati anni facili. Il monopolio era alla fine, imperversava il caos televisivo, ma la Rai reagì lasciando segni per il presente e segnati per il dopo: le grandi iniziative come Verdi, Marco Polo, Cristoforo Colombo, Cuore, la scelta di contribuire alla vita del grande cinema sostenendo il lavoro dei suoi massimi artisti, gli sforzi per conservare almeno le più reputate tra le orchestre - a partire da quella di Torino per la quale mi adoperai con un impegno pari alla sua inutilità -, l'incentivo alla produzione giornalistica e all'intrattenimento attraverso uomini come Biagi e Arbore...». Sarebbe stato possibile tutto questo con il confronto - ora per ora, minuto per minuto con la concorrenza? Oggi ci sono progetti che vengono canceUati dopo due puntate... «Giovanni Sartori propone di ribellarsi all'Auditel: basterebbe capire chi comincia o chi ha il potere di costringere - tutti - a farlo. Quanto a noi, è vero, non sentivamo il fiato sul collo degb inseguitori. E per altri motivi non se ne valutò appieno il significato quando sarebbe servito». Si va verso la privatizzazione. Come se la immagina una Rai in mano ai privati? «Lo faccio con qualche difficoltà, non lo nego, ma ci provo. Credo che il modello della Rai - lo dico sfidando la facile battuta - dovrebbe essere la Bbc: indipendente, sottratta alla presa dei partiti, affidata a garanti meritevoli di questo nome, e con finanziamenti pubblici. Accanto a questa Rai vorrei vedere, arricchita e differenziata, la presenza dell'impresa privata. Con obbligo di controlli e concessioni revocabili». Torniamo al presente, che è meno brillante. Chi ha commesso Terrore più grave: Siciliano o quelli che lo hanno mandato a presiedere il cda? «Escludere, per principio, un intellettuale dai vertici della radiotelevisione pubblica sarebbe un errore. I discorsi sulla competenza specifica non reggono granché. Non è indispensabile che sia un medico il ministro della Sanità: anzi, molti preferiscono qualcuno più vicino al cittadino che alla corporazione. Insomma, nessun "no" pregiudiziale, tranne i casi di manifesta incompatibilità. Certo, se la scelta cade su chi ha esperienza, e persino vocazione, tanto di guadagnato». E la competenza, scusi? «Le competenze di settore sono necessarie, in termini ampi, al direttore generale, e in misura ancor più precisa, ai direttori di rete e delle diverse aree di programmazione o di supporto. Il vertice deve dare le linee di indirizzo, spetta alla struttura aziendale attuarle. E' preferibile tranne casi eccezionali, che i ruoli restino distinti». L'addio di Siciliano ha innescato un processo a catena. Questo stillicidio di dimissioni, quasi una al giorno, ha fatto bene all'immagine della Rai? «Credo che la Rai vada giudicata da altri fattori: la regolarità, l'ampiezza e dalla qualità della programmazione, da giudicare nel confronto con altri servizi pubblici e privati. E, infine, dal costo effettivo per gli utenti. Questa è la sostanza. C'è anche l'immagine, è vero. In Italia dove lo schiodare, e figuriamoci lo schiodarsi, è arduo - le dimissioni suscitano favore e simpatia. In fondo, la nomina del consiglio di amministrazione attribuita ai presidenti delle Camere doveva essere un espediente provvisorio, in attesa della riforma legislativa. Se le dimissioni contribuiscono a far cessa¬ re la precarietà e ad accelerare la riforma, allora sono benvenute». Ora l'attenzione è tutta per le nuove nomine. Che cosa si aspetta? «Che si faccia punto e a capo. Ho ascoltato l'assicurazione che in pochi giorni la crisi sarà risolta. Le nomine sono un problema, ma il problema è quello di varare, in tempi brevi, una buona riforma dell'ordinamento televisivo, capace di dare certezza alla Rai e ai privati. Questo importa, e più delle nomine». Dottor Zavob, si dice che alla radice di questa crisi ci sia uno scontro tra laici e cattatici. Qual è il peso che i cattobci devono avere dentro la Rai? «Lo stesso peso che hanno nella cultura e nella società italiana. Ciò vuol dire rilevante, non esclusivo, né in alcun modo soverchiarne. Abbiamo avuto, con Bernabei, una sorta di "muminata signoria" cattotica sui programmi che assegnava ai laici la loro prima, significativa presenza nel grande medium. Fu un'operazione straordinaria, per quei tempi. Oggi non è accettabile né una dominante presenza dei laici - anzi, per essere precisi, dei non cattolici né ovviamente il contrario. E non penso che la Rai serva per produrre consenso o sostenere - in ipotesi un regime. Ma non mi piace neanche il regime all'interno della Rai...». Guido Tiberga «Sarebbe un errore rifiutare a priori un intellettuale alla presidenza salvo casi di manifesta incompatibilità» A sinistra Sergio Zavoli presidente Rai dal 1980 all'86 A destra Enzo Siciliano
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