Salviati, la rivincita della Maniera
Salviati, la rivincita della Maniera Da domani a Roma grande mostra di un maestro dimenticato: 180 opere, con inediti e pezzi rarissimi Salviati, la rivincita della Maniera In augefino a Rubens, già nel '600 era bollato come degenerato L| ROMA / AMICO e compagno di studi e leggermente invidioso Vasari non aveva dubbi: I «Cecchino aveva la più bella maniera che qualunque altro fusse allora a Fiorenza», e poi assicurò nelle Vite che era «il primo e miglior pittore di Roma». Non era il solo: Lomazzo lo nomina «nobile cavagliere», Aretino lo celebra come «virtuoso e glorioso», e unico viene cantato dal Tasso: «che coi color e col pennello audace / scorno a natura, invidia agli altri face». Ma, appunto, il Salviati è l'artista emblematico per studiare i venti capricciosi della Fama: stimatissimo, almeno fino a Rubens, è il classico pittore che subisce e incarna i rovesci di fortuna del concetto di Maniera. Perché, già nel '600 del Malvasia, questi artisti che si ribellavano al primato della Natura, per ritrovarla invece nell'Artificio dei Maestri, erano bollati come degenerati che «totalmente nella loro immaginativa si fondarono e ad un certo fare sbrigativo e manieroso s'applicarono». Così la fortuna del Salviati si eclissò sin quasi a noi, confuso e ombrato da altri maestri più riconoscibili: sino almeno al primo '900 di Voss (il rianimatore pure di La Tour), sino alle prese di posizioni di Zeri e Briganti, ai paradossi di Shearman, che lo ritenne «più grande del Pontormo». La splendida mostra che si apre domani a Villa Medici, curata da Catherine Goguel e Philippe Costamagna, segna in fondo la sua rivincita: 180 opere, tra inediti e pezzi rarissimi. Che inseguono una febbrile mqnietudine, una camaleontica felicità di esprimersi nei modi più eclettici: dai disegni per stampe e arazzi, al mosaico, alle tavole mediche. L'onda polimorfa di questa sua versatilità s'infrange, in questa esemplare rassegna di confronti, sino alle ceramiche di Faenza, ai piatti di Limoges, all'oreficeria. Un'irrequietudine ben diversa da quella accidiosa e (drresoluta» di Pontormo: lui non avrebbe mai ritratto la scala a pioli della sua creatività, ma semmai, da ligio cortigiano già aduso alle lusinghe dell'auto-celebrazione, avrebbe ulteriormente eccitato i suoi talenti. «Lavorando come un cane senza intromitter tempo», certifica il maggiordomo dei Medici: e quando a Venezia è ospite dei Grimani è capace di assottigliare il suo guizzante pennello alle fiorite minuzie di miniatore di un infallibile Libro Pontificale. Instancabile: prova le maschere fantasiose degli stili e delle tecniche. Per questo è così difficile individuare un percorso cronologico: così le sue opere sono passate da Michelangelo a Andrea del Sarto (suo maestro), dal Dolci a Daniele da Volterra. Certo, Michelangelo non poteva non ammirare questo ragazzetto alla Truffaut, che gli rubava con scasso i disegni (per copiarli nottetempo a insaputa del pa¬ dre che lo voleva orefice) e che come un'Antigone invasata sfidò le insidie delle guardie per raccattare i pezzi abbandonati del braccio del David, distrutto durante la cacciata dei Medici. Ma, cautamente, il Vecchio Terribile gli preferisce Daniele da Volterra, forse perché più affidabile e meno estroso: lo si arguisce da come piega mimeticamente l'arte del disegno ai suoi desiderata, passando dagli esercizi più accademici in matita nera o d'argento alle sprezzature più fluidificate e fiammeggianti, ma volteggiando direttamente col pennello, secondo una tecnica che annuncia il Barocco. Con quelle tempeste calligrafiche di capigliature estrose, che paiono studiate per un défilé della Moda Manierista. O quelle tensioni danzate dei «nudi di natura», per esempio in quella davvero incredibile Incredulità del Tommaso che pare un sabba del sabato sera, una furlana di puttini e riccioli e malizie, col Cristo sollevato su una poltrona di marosi e sensualissime acrobazie papaline. «Castelli in aria» chiamava giustamente queste «capricciose bizzarrie» il Doni, uno dei tanti amici colti di Cecchino: cammelli con la testa di giraffa, emblemi enigmistici che avrebbero suggestionato Stefano della Bella e i Fiamminghi a Roma, maschie positure lussuriose, con satiri che si appendono alle parti pudende come a casti festoni decorativi. Bizzarro, sedotto da un incalzare quasi meteoropatico di brezze stilistiche, egli cita volentieri se stesso, ma non per civetteria. Proprio come un musicista assediato, un Rossini, capace di mimetizzare un tema comico del Viaggio a Reims sotto i panni penitenziali del Comte Ory, anche Salviati vive di ricalchi, di autoimprestiti. E' un grande «montatore» di positure e gesti affastellati, che ora ci pare di poter meglio identificare. Quel suo gusto del «contrappeso dinamico» desunto dal Perseo di Cellini come dal «tondeggiar di linee» di Michelangelo (semplicemente stemperato nel solvente blando del la «grafia» di Andrea del Sarto e Parmigianino). Quelle sue boccucce profilate di promesse, quegli occhi gonfi di sensuosa glicerina, quelle mani affusolate da pianista che son sempre in primo piano, protese a una galante imposizione di baciamano. Ed è splendida la galleria di ritratti virili, con quella gentile tipologia leggermente microcefala, di volitivi Bel Ami decisi a sfondare: come il giovane Medici che accarezza fiero un elmo dai riflessi di muco d'ostrica o quel capolavoro del ragazzo con cane, che simula uno sfondo di lavagna che ritroveremo nel Moroni. E il modelletto in oro di un altro Orafo guizza via nervoso dalle mani quasi fosse un ramarro. Salviati copia l'antico ma sceglie la vita, anche se spesso la schiuma sfrontata dei suoi schizzi si siede come un educato soufflé nella realizzazione a olio (e par di udire il committente: «La prego, dipinga più semplice, più chiaro»). Nelle pieghe dei suo manierismo si sedimenta l'antico (il «modernamente antico», chiosa l'Aretino). Anzi s'agita, scodinzola come un cagnino: come quel bassorilievo animato che è l'inginocchiatoio dell'Annunciazione. Nella magica Adorazione, le fosche rovine della Domus Aurea si schiudono come sipari per scoprire il tenero schermo della Natura, in un secolo in cui Pontormo e Bronzino la sacrificano ai loro sfondi di diaspro. E se proprio deve scomparire, Salviati ne fa una gentile montagnola da camera ai piedi di Santa Cristina: un budino-bonsai. Marco Vallerà Francesco Salviati Roma, Villa Medici Tutti i giorni, tranne il lunedì, dalle 10alle I3edalle 15 alle 19 Fino al 29 marzo Dalla parte dell Artificio, respinse il primato della Natura. Nei suoi dipinti una febbrile inquietudine, una camaleontica felicità di esprimersi nei modi più eclettici «L'adorazione dei pastori» di Francesco Salviati, in mostra fino al 29 marzo a Roma, Villa Medici
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