Noi, vittime sotto inchiesta»

Noi, vittime sotto inchiesta» Noi, vittime sotto inchiesta» «Sospettati di favorire i rapitori di papà» UHHMI INTERVISTA LA DENUNCIA DEL FIGLIO BRESCIA DAL NOSTRO INVIATO «Troppo facile, adesso, fare marcia indietro. Troppo facile dire che il primo obiettivo è la liberazione di mio padre come ora fanno tutti», scuote la testa Giordano Soffiantini, che da sette mesi e dieci giorni aspetta di poter rivedere suo padre, l'imprenditore di Manerbio Giuseppe Soffiantini. «Sono capaci tutti di fare marcia indietro, ora che i buoi sono scappati dal recinto», dice arrabbiato davanti a un caffè al bar Miami, a fianco del Tribunale. E conferma, il secondogenito dell'imprenditore tessile: «Abbiamo venduto le aziende, la trattativa la stiamo gestendo da tempo solo noi e continuiamo a volerci muovere da soli». Già ai primi di dicembre avevate raccolto i soldi, dottor Soffiantini. Lo conferma? «Sì, quattro miliardi in contanti, parte in lire parte in dollari come ci avevano chiesto i sequestratori. Un mio parente ha cercato di prelevarli dalla sede centrale del Credito Agricolo Bresciano. Quei soldi, si sa, sono stati bloccati dagli stessi che oggi dicono di voler fare marcia indietro, che la legge sul blocco dei beni lascia delle scappatoie e non è così inflessibile come l'hanno applicata a noi. E poi...». E poi? «Per quei soldi che non siamo riusciti a prelevare dalla banca, io e i miei fratelli Carlo e Paolo, siamo stati interrogati dalla magistratura di Brescia». Vi hanno chiesto di deporre come testimoni... «No, no, non come testimoni. Siamo stati messi sotto inchiesta. Sa con quale accusa? Favoreggiamento reale». In pratica vi hanno accomunato ai sequestratori. E' così? «Sì, siccome volevamo pagare il riscatto, visto che questa è l'unica strada per arrivare alla liberazione di mio padre, ci hanno sospettato di "favorire" i rapitori. Come se noi pagassimo il riscatto per altri scopi e non per la liberazione di mio padre». Cosa ha detto ai magistrati, quando l'hanno interrogata? «Al dottor Giancarlo Tarquini (procuratore capo di Brescia, ndr) che voleva sapere da dove arrivavano e a cosa sarebbero serviti quei miliardi, io ho risposto una cosa sola: mi avvalgo della facoltà di non rispondere. Non potevo fare diversamente, quando è troppo è troppo». E da allora è un muro contro muro, chiaro. «Oramai tra noi e la procura di Brescia le strade sono divise. Lo¬ ro facciano quello che vogliono, noi pensiamo solo a pagare e al più presto». Le sue sono parole durissime, sembra un atto di accusa. E' così? «Io non voglio fare polemiche, ci sarà tempo per ragionare su quello che è stato fatto o non è stato fatto in questi mesi. Noi adesso vogliamo solo nostro padre e per questo c'è una strada sola». Pagare il riscatto, giusto? «Noi vogliamo pagare. E vogliamo farlo senza nessuno di mezzo». Il codice consente il cosiddetto pagamento controllato. In sostanza il riscatto viene pagato, soprattutto a fini d'indagine, solo se c'è la possibilità di individuare chi ritira i soldi. Che ne pensa? «Ci manca solo quello, ci manca solo quello... Noi abbiamo sempre I detto "no" a qualsiasi ipotesi di pagamento controllato. Non vogliamo né cimici, né microspie, né pedinamenti. Vogliamo fare da soli, senza intralci, senza controlli se ci riusciamo. Qualsiasi altra ipotesi ostacolerebbe la liberazione di mio padre». Quando è avvenuta la «rottura» con i magistrati della procura di Brescia? «Potrei dire anche la data, il 15 novembre. E' stato il giorno che ci è stato recapitato il primo lembo di orecchio di mio padre. In quel momento, in famiglia, abbiamo tutti capito che, se volevamo rivedere mio padre vivo, e al più presto, avremmo dovuto muoverci da soli. Poi ci sono arrivate conferme, che quella del pagamento era l'unica strada percorribile». Cos'è successo? «Ci hanno definitivamente convinto le parole di Silvia Melis, quando ha detto che l'unico siste¬ ma per liberare i sequestrati è pagare il riscatto ai rapitori. Noi vogliamo pagare e, mi ripeto, lo vogliamo fare senza nessuno di mezzo. Siamo noi le persone con cui i sequestratori devono mettersi in contatto. Usando, come ha ricordato mio fratello Carlo, quel canale già adoperato a dicembre che è ancora aperto, che gli inquirenti non hanno ancora scoperto». Siete pronti, insomma? «(Abbiamo già venduto le nostre aziende, per trovare quei miliardi che ci hanno chiesto i sequestratori, abbiamo delle promesse da mantenere con amici e parenti che ci stanno aiutando. Adesso abbiamo bisogno solo di 48 ore per pensare e per preparare un appello. Diremo qualcosa anche a chi deve capire, ai sequestratori che hanno in mano nostro padre». Fabio Potetti «Troppo facile ora fare dietrofront A dicembre avevamo i soldi, ci hanno bloccati e poi accusati di favoreggiamento. Adesso vogliamo pagare: facendo tutto da soli» Pietro Raimondi accusato di essere il basista Giordano Soffiantini, uno dei tre figli dell'imprenditore bresciano. In alto, l'ufficio postale di Pratantico (Arezzo), da cui è stata spedita la lettera di appello contenente un pezzo di orecchio

Persone citate: Fabio Potetti, Giancarlo Tarquini, Giordano Soffiantini, Giuseppe Soffiantini, Pietro Raimondi, Silvia Melis, Soffiantini

Luoghi citati: Arezzo, Brescia, Manerbio, Miami