Il grande Ozu
Il grande Ozu Il grande Ozu OUALCOSA è cambiato da quando Donald Richie e Joseph L. Anderson scrivevano: «Mentre il Giappone ha da tempo riconosciuto i suoi meriti, l'estero ne ignora ancora, non per propria colpa, le opere. E' uno dei pochi registi giapponesi di primo piano tuttora ignoti in Occidente». Oggi, nessuno sembra più dubitare che Yasujiro Ozu debba essere collocato nell'ohmpo dei grandi di tutti i tempi, magari sull'onda dell'ammirazione dimostrata da autori come Wim Wenders e Paul Schrader. Ma ciò non toglie che la conoscenza dei suoi film resti molto parziale, lacunosa e limitata ai titoli più prestigiosi. Più che opportuno giunge dunque questo ampio omaggio, fatto di 21 lavori (dei 50 realizzati dal regista in 36 anni di attività), presentato dal Museo Nazionale del Cinema con la Cineteca di Bologna e l'Istituto Giapponese di Cultura di Roma (Massimo Tre, sino al 28 febbraio). La bellissima rassegna - per la verità un poco sacrificata da una programmazione che costringe allo slalom con altre rassegne nella stessa sala, e limitata dai sottotitoli inglesi non tradotti - si concentra sul primo periodo dell'attività di Ozu (dal 1929 al 1942), che è anche quello meno noto, trascurando invece il periodo della maturità e degli straordinari capolavori del*dopoguerra. Con la sola eccezione di «Viaggio a Tokyo», del 1953, forse il suo film più noto e apprezzato. Merito principale della retrospettiva sarà dunque quello di farci conoscere un Ozu almeno in parte diverso dall'immagine cristallizzata attraverso, appunto, i tardi capolavori: un universo cinematografico chiuso nell'assoluta perfezione della sua identità di forma e significato, conquistata in virtù di una formidabile economia e raffinatezza di mezzi espressivi, nella rinuncia a qualsiasi firma di drammatizzazione esteriore, nella concentrazione di pochi elementi tematici che ritornano ossessivamente di film in film e ruotano attorno alla messa in scena di piccoli eventi familiari osservati con l'occhio partecipe e sensibile di un entomologo appassionato. E' famosa una sua dichiarazione, che costituisce una sorta di summa della sua poetica di narratore per immagini: «I film con intrecci troppo elaborati mi annoiano. Naturalmenie un film deve avere una sua struttura, altrimenti non sarebbe un film, ma credo che per essere buono debba rinunciare all'eccesso di dramma e all'eccesso d'azione». Nei film della maturità, quest'arte del togliere raggiunse livelli di estrema concentrazione, traducendosi in un sistema formale fondato sull'uso esclusivo di inquadrature fisse dal basso (il famoso punto di vista di un individuo seduto sul tatami) e di prospettive determinate dalla struttura della casa tradizionale giapponese. Null'altro: nessun movimento di macchina, nessuna dissolvenza semplice o incrociata, nessun effetto tecnico o linguistico che possa distrarre dalla concentrazione sui personaggi e l'espressione dei loro sentimenti. Per la verità, la rinuncia agli effetti «ottici» è qualcosa cui Ozu si era risolto sin dagli Anni Trenta, quando invece ancora forti apparivano certe influenze del cinema americano e, in genere, della cultura occidentale sui suoi film. Per cui questa lunga e importante retrospettiva potrà essere seguita come il percorso di una lenta e riuscita conquista di uno stile assoluto ed essenziale. Alberto Barbera // Massimo Tre, via Montebello 8, ospita sino al 12febbraio la retrospettiva dedicata al regista giapponese Yasujiro Ozu (nella foto) e organizzata dal Museo Nazionale del Cinema con la Cineteca di Bologna e l'Istituto Giapponese di Cultura di Roma Il grande Ozu
Persone citate: Alberto Barbera, Donald Richie, Joseph L. Anderson, Paul Schrader, Wim Wenders, Yasujiro, Yasujiro Ozu
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