DICKINSON, UNA VISIONARIA TRA LACERAZIONE E ARMONIA di Ruggero Bianchi

DICKINSON, UNA VISIONARIA TRA LACERAZIONE E ARMONIA DICKINSON, UNA VISIONARIA TRA LACERAZIONE E ARMONIA TUTTE LE POESIE Emily Dickinson Mondadori pp. I8S7 L. 65.000 forse tempo di riscoprire in una nuova luce Emily Dickinson, una delle maggiori voci poetiche dell'Ottocento non solo americano ma di tutto l'Occidente. Questa, in estrema sintesi, è la conclusione cui si giunge dopo aver letto l'edizione mondadoriana delle sue liriche complete e, soprattutto, la splendida introduzione di Marisa Bulgheroni, americanista pensosa a proprio modo reticente, che ha sempre badato più alla qualità che alla quantità dei suoi scritti. La Bulgheroni è in questo periodo in un autentico stato di grazia, come dimostra l'uscita, quasi in simultanea, di Apprendista del sogno (Donzelli, pp. 141, L. 21.000), una raccolta di racconti che ha a propria volta, già nel titolo stesso, qualcosa di dickin- qsomano. Il canzoniere della Dickinson da lei curato per la prestigiosa serie dei Meridiani si presenta come qualcosa di più di un'edizione critica in italiano, di cui peraltro ha tutti i requisiti: ricchezza della cronologia, abbondanza di note non superflue, bibliografia esauriente e aggionatissima, duecento pagine di indici che permettono ai lettori di qualsiasi livello di orientarsi tra le quasi milleottocento schegge della «musa di Am- herst». E' infatti una di quelle rare operazioni (definitive o comunque fondamentali) di «sistemazione» cui ogni studioso vorrebbe, alla resa dei conti, legare il proprio nome per garantirsi nel tempo una traccia di ricordo. Il fatto è che la Bulgheroni non si è fermata ai «prodotti» della Dickinson ma ha cercato di penetrarne dall'interno i percorsi e le motivazioni, le intenzioni e i processi; leggendone i componimenti singoli come brandelli di un ininte^otto work in progress, come continue e sofferte riformulazioni di una costante volontà di ridire per dire meglio e con maggior chiarezza e a livelli sempre più profondi. Cioè non come enunciazioni isolate e indipendenti, ma come microcanti di un unico poema che soltanto la morte può interrompere: un tipo di approccio che in questi anni s'è cominciato ad usare per Melville, che Mario Corona ha di recente applicato alla prima edizione di Foglie d'erba di Whitman e che, sia pure in maniera meno consapevole, un narratore come Kerouac avrebbe voluto riferire a se stesso. Si tratta di qualcosa di più dell'ambizione di molti scrittori di Oltreoceano a creare «la grande opera americana», quasi sempre intesa come ambizione a creare «il grande romanzo americano». E', piuttosto, la scelta coraggiosa di scrivere nel presente per un lettore che non esiste ancora, di scegliersi un «futuro destinatario» cui non si chiede di leggere le poesie nel tempo a mano a mano che vengono scritte, bensì di misurarsi con la globalità di esse, in un corpus ormai definitivo e immodificabile. Una scommessa sulla capacità del dopo di trovare un senso, anzi il senso, di ciò che sul momento nemmeno chi scrive sa o può pienamente interpretare. Da un lato, la ripetizione diventa così un accorto e necessario stratagemma per non ridire mai la stessa cosa. Dall'altro, si scommette su un futuro incerto, che rischia pur sempre di non sapersi sintonizzare su un passato che si regge in parte sulla contingenza e che può quindi, a distanza, risultare incomprensibile, come le «lettere smarrite» di cui parla Melville nel suo celebre Bartleby. Altro che «zitella del New England», dunque! Altro che poetessa della piccola Natura e della minuta esperienza del suo fragile microcosmo! La Dickinson, nell'interpretazione di Marisa Bulgheroni, si pone come grande scrittrice visionaria, co¬ me autrice di un poema modernissimo non soltanto nei temi e nelle idee, ma anche e soprattutto nel processo di scrittura, non basato su canti e cantiche logicamente o cronologicamente consequenziali ma su frammenti e squarci di una realtà che, pur dovendo ricomporsi in armonia, si alimenta di contraddizioni, esaspera i dilemmi, rompe ogni logica di monodimensionalità. Un poema che, per azzardare qualche parallelo, si avvicina più ai Cantos di Ezra Pound che non alla T'erra desolata di T. S. Eliot. Nell'edizione dei Meridiani Mondadori, la Dickinson si rivela insomma una sorta di ottocentesca versione femminile di W. B. Yeats, senz'altro meno cruda ma non certo meno crudele. Non è un caso che la revisione delle traduzioni (in massima parte di Silvio Raffo, ma anche di Margherita Guidacci, Nadia Campana e altri) sia stata affidata a Massimo Bacigalupo, che è al tempo stesso uno dei maggiori esperti della poesia americana del Novecento e uno dei lettori più appassionati di quel grande contemporaneo (in tutti i sensi) di Emily Dickinson che è Herman Melville. E non a caso il volume è completato, come è giusto nei confronti dei massimi poeti di ogni tempo, da un'ampia antologia di varianti traduttive proposte da grossi nomi della letteratura italiana (Eugenio Montale, Giovanni Giudici, Mario Luzi, Amelia Rosselli ecc.), a confermare che nella sua scrittura scarna, ermetica e ai suoi tempi anomala resteranno sempre nuovi significati da trovare, nuovi tesori da portare alla luce. Ruggero Bianchi TUTTE LE POESIE Emily Dickinson Mondadori pp. I8S7 L. 65.000 Emily Dicki e (sopra) Chesterton visto da Le'