L'ARCIPELAGO MORTE DA LENIN A POL POT

L'ARCIPELAGO MORTE DA LENIN A POL POT L'ARCIPELAGO MORTE DA LENIN A POL POT 77 «Libro nero» che uscirà da Mondadori PARIGI ES yeux bleus de la Revolution brillent d'une cruauté nécessaire», scriveva Aragon ne Le Front Rouge. Ma il comunismo planetario al quale sei storici illustri dedicano un ponderoso Libro Nero non ha più gli occhi azzurri e la sua crudeltà, lungi dall'essere «necessaria», appare - salvo eccezioni criminale. Nemmeno invocare Gorki serve. Aveva scritto, nel 1922, che la ferocia è endemica nell'anima russa come lo humour per quella inglese. Ma scorrendo il volume, scopriamo che il cuore della macchina omicida batte a Est. L'Urss di Lenin aperse la via, Stalin perfezionò la logica da massacro, e tuttavia Mao doveva eclissare i predecessori sovietici. Bisognerebbe, insomma, deeuropeizzare il Terrore Rosso, smettendola di farne una «questione interna» russa con diramazioni postbelliche nei satelliti slavi e balcanici. La classifica è istruttiva. I morti da comunismo sarebbero 65 milioni nella sola Cina. Poi l'Urss, con 20. Il Nord Corea e la Cambogia totalizzano 2 milioni ciascuno. Se- gue l'afrocomunismo, da Menghistu all'Angola e senza trascurare precari regimi sovietizzanti o sanguinose guerriglie locali: 1,7. Afghanistan, 1,5. Un milione per il Vietnam e, nel suo insieme, l'Europa dell'Est. L'America Latina conta 150 mila vittime. Varie & eventuali (pc non al potere, internazionalismo): qualche decina di migliaia. Torneremo sui criteri, discutibili, che hanno permesso di quantificare le cifre. Precisione ancor più sorprendente, peraltro, se pensiamo che gli unici archivi nazionali asiatici cui i ricercatori possano accedere liberamente li si trovano in Cambogia. Ma prima facciamo una piccola addizione. Salvo errore, il totale ammonta a 94 milioni e cinquecentomila cadaveri. La manchette iniziale faceva buon peso: «Cento milioni di morti». Ora, invece, è al ribasso: 85. Che cosa succede? Di tutto. Alcuni fra i cinque coautori Nicolas Werth (Urss), Jean-Louis Panne (Comintern e Guerra Civile spagnola), Andrzej Paczkowski (Polonia), Karel Bartosek (Europa centro e sud-orientale), Jean-Louis Margolin (Asia) - contestano il curatore Stéphane Courtois per una pre e postfazione troppo «ideologica» (rimpiangiamo Frangois Furet, che voleva incaricarsene in sua vece) dissociandosi inoltre da un battage editoriale che snatura le loro indagini e allestisce un macabro «totoeccidi». Ulteriori critiche piovono dall'esterno. L'aver omesso sistematicamente l'esistenza di ragioni «altre» che un potere assassino, fanatico e liberticida per spiegare la storia indigna alcuni. Prendiamo le popola¬ zioni germanofone nella Russia Centrale. Stalin deportò i «Tedeschi del Volga» in piena offensiva germanica nella certezza che ritrovarseli dietro le linee fosse rischioso sul piano militare e civile. L'esodo fu atroce, e pochi i sopravvissuti. Ma nessuno storico contesterebbe le buone ragioni di Mosca. Roosevelt non fece forse internare dopo Pearl Harbor le pacifiche colonie giapponesi in terra americana? E possiamo dimenticare la descrizione fattaci da André Malraux ne La condition humaine sui comunisti che a Shanghai la folla gettava vivi nelle caldaie delle locomotive? Non per giustificare le violenze successive, ma capire. Ancora: mettere in luce l'appoggio sovietico alla Spagna repubblicana (con liquidazione annessa di anarchici e trotzkisti) senza neppure un brevissimo cenno per le truppe d'appoggio mussoliniane e tedesche su cui poteva contare Franco, significa fuorviare il giudizio. Dettagli, si dirà. E a ragione. Ma se Le livre noir vuole essere, come dichiara lo stesso Courtois, una requisitoria comparativa fra i crimini nazifascisti e quelli da socialismo rivoluzionario (e poi reale), favorisce i ricorsi particolari per demolire la tesi generale. Il gioco è, in altre parole, duro. Scrive il curatore che i Rossi battono i Neri 4 a zero. I famosi 100 milioni contro - appena 25. Ma Adolf Hitler ebbe a disposizione 12 anni, i comunisti una settantina. Il «doping asiatico», con una demografia incommensurabile secondo i parametri europei, altera infine il raffronto. Sarebbe inoltre buona regola, in assenza di riscontri incontrovertibili, esprimere valutazioni ipotetiche (da... a...) anziché indicare un numero che - nell'ipotesi migliore - costituisce una pura media matematica fra estremi. Morale, il calcolo premia sul «come» e «perché». E la questione numerica diviene, surrettiziamente, primordiale. Il livre noir finisce per essere vittima di se stesso. E' la prima opera, se vogliamo essere franchi, autorevisionista. Le due manchettes ne testimoniano. Il loro obiettivo era una grossolana ma in definitiva corrente promozione editoriale. Ma invece di lanciare il prodotto, l'hanno ucciso. Perché ormai il campo è libero ai contabili di Thanathos. 100, 94, 85, 78. Li hai messi i Ceceni? Togli i Calmucchi! Bingo. Sono già in azione i minimizzatoli professionali. Gli stessi cui piace limare i famosi «6 milioni di ebrei» sperando che a far notizia non sia più il genocidio ma il presunto bluff sulle prime rilevazioni. I kulaki li ha uccisi la fame e non il leninismo, sostengono. Mosca guadagnerebbe allora istantaneamente un bonus da almeno 12 milioni. E Pechino, se eliminiamo le carestie in relazione con il «Grande Balzo», se ne vede amnistiare una quarantina. Il vero problema risiede altrove. La forza dell'opera non sta nell'inventario numerico sul quale, per inciso, i ricercatori già vent'anni fa azzardavano ipotesi non troppo dissimili. Le dobbiamo, semmai, l'ampio respiro nel repertoriare le atrocità commesse ovunque nel mondo. In secondo luogo, si (dimostra come il carattere criminoso fosse consustanziale alla pratica del comunismo. Non più deviazioni (il classico krusceviano: salvare Lenin attaccando Stalin), eccessi, dolorose necessità, sbagli da rettificare... bensì un metodo unitario e tradizionale, che varia secondo i Paesi e le congiunture ma senza allontanarsi dalla violenza. Tesi cara ai fa¬ scismi. Il suo impiego strumentale non ne elimina tuttavia l'almeno parziale veridicità, cui il saggio fornisce un'ampia documentazione. Jean-Louis Margolin, in particolare, è implacabile. Ci spiega che se il gulag sovietico incamerò, al suo apogeo, 2.753.000 «coloni speciali», il suo omologo cinese «laogai» campi industriali - ne vide passare 50 milioni. Oltre un terzo non sopravvisse a inedia, malattie, percosse. Ma pochi invocavano la morte. Caso unico, qualora il recluso morisse gli poteva subentrare un figlio per estinguere la pena. Lo studioso approfondisce moltre il tema delle responsabilità familiari. Le colpe paterne ricadono sulla discendenza. La prole dei «controrivoluzionari» finisce spesso in prigione senz'alcun addebito ad personani. Difficile non individuarvi una qualche equivalenza metodologica con le discriminazioni razziali nel III Reich. E il «socialismo di ferro» polacco dagli 8700 oppositori «liquidati» tra il '44 e il '47, o i 110 mila bulgari che transitarono in un solo decennio attraverso i gulag? Episodi minori eppure meritevoli di attenzione come la spietatezza verso i «nemici» in cui eccellerebbe Fidel Castro. Ma alla domanda «Soltanto il Terrore spiega le durevoli fortune del comunismo?», l'antologia non offre una vera risposta. Studiare in parallelo il consenso esulava dai suoi obiettivi. Però il dubbio - giunga o no mia Norimberga Rossa come suggerisce qualcuno - perniane intatto dopo la lettura. Enrico Benedetto LE LIVRE NOIR DU COMMUNISME Crimes, terreur, répression Contributi a cura di Stéphane Courtois Nicolas Werth Jean-Louis Panne Andrzej Paczkowski Karel Bartosek Jean-Louis Margolin Robert Laffont editore pp. 846 Franchi 189 La macabra contabilità degli eccìdi comunisti: le cifre, i criteri, i limiti di una ricerca storica discussa e discutibile Togliatti. A destra Trockij, Lenin e Stalin