E adesso Teleulivo rischia il naufragio
E adesso Teleulivo rischia il naufragio E adesso Teleulivo rischia il naufragio AL di là delle intenzioni di chi le ha date, le dimissioni rappresentano la denuncia di un sistema politico che sforna presidenti inutili per conservare alla Rai il suo status di sacca irriformabile del demo cristianismo reale. Siciliano torna nella terrazza da cui era venuto. Se ne va come prima di lui, in ruoli e per motivi diversissimi, avevano fatto Baudo, Santoro, Brancoli, Bonolis, Montesano e la Venier. Come ha minacciato più volte di fare Lucia Annunziata e ultimamente persino quell'eterno entusiasta di Fabio Fazio. Come forse accadrà a Carlo Freccerò, il Roberto Baggio di Raidue. Tutti questi professionisti di TeleUlivo hanno una cosa in comune: la loro sostanziale estranietà al ventre molle, burocratico e mediocre della Rai. Dove, come in tutte le aziende pubbliche, quando si apre uno scontro non vince il più lottizzato (lo sono tutti), ma il più funzionale alla regola eterna del potere: l'immobilità. Riviviamo la strana fine della prima presidenza pidiessina della Rai, scusandoci in anticipo per il fastidio che queste congiure di Palazzo suscitano nei lettori più sani. Domenica scorsa il dado, si fa per dire, sembrava tratto. Con la benedizione di tutti, D'Alema com¬ preso, sul vassoio di Salomè Siciliano erano pronte le teste di Tantillo e Minoli, i direttori veltroniani di Raiuno e Raitre mai entrati in sintonia con il pubblico di Pippo Baudo e di Santoro. Mentre Salomè si preoccupava giustamente della prima teatrale di una sua pièce allo Stabile di Torino, toccava all'Erode di turno, ii direttore generale Franco Iseppi, confezionare il buffet delle nuove nomine. Piatto forte: l'ex direttore di Panora ma Andrea Monti alla guida di Raiuno. I designati erano bravi, una qualità che conta come contano queste cose in Rai: poco. Ma erano graditi ai moderati di destra e di sinistra, in particolare ai prodiani del ppi e al loro vice-segretario ombra Veltroni. E questo conta decisamente di più. Tutti d'accordo, allora, tranne un trascurabile partitalo della maggioranza: il pds. Salomè Siciliano, richiamato all'ordine, telefonava a destra e soprattutto a manca, dove ad attenderlo c'era un D'Alema abbastanza seccato. Qualcuno osa insinuare che il suggerimento di dimettersi glielo abbia dato lui. Piuttosto che fingere di comandare senza contar nulla, per il pds era meglio avere le mani libere con una presidenza affidata alla regista Liliana Cavani, cattolica a sinistra di Dio. Ma Siciliano ha deciso da solo. Dopo aver visto con quale accanimento i silurandi difendevano le poltrone e i burosauri dell'azienda i loro eterni equilibri. Soprattutto dopo essersi accorto di aver perso la maggioranza nel consiglio d'amministrazione. Ha fatto l'unica cosa che gli restava da fare. Togliersi le babbucce cinesi con cui da un anno e mezzo passeggiava per i corridoi della Rai, rimettersi le scarpe con la para e venire finalmente allo scoperto per conquistarsi una fine dignitosa. L'ha avuta. Il suo gesto dovrebbe avere due effetti salutari. Il primo è il congelamento di tutte le nomine già in cottura, questa vecchia pratica democristiana di trasformare gli ultimi mesi di un governo (quello della Rai scade in estate! in una riffa sfrenata di poltrone da assegnare in articulo mortis. Il secondo effetto è che Siciliano potrà finalmente smettere di guardare la tv. Una fatica im¬ proba. Una noia mortale. Diciamola pure fino in fondo: una cattiveria. «Vorrebbero che io non avessi figli, amici, vita privata. Che non scrivessi più. Che vivessi in una bara di ghiaccio, sepolto lassù». Davanti a una tivvù. Colazioni con Frizzi. Cene con Vespa. Tira e molla con Bonolis. E poi i pranzi sempre un po' pesanti con Iseppi, l'amministratore del condominio, il quale ogni volta che in terrazza si rompeva qualcosa saliva su con la faccia triste e il rendiconto della spesa. Della presidenza di Siciliano ci restano la lite con Santoro («Michele chi?»), le grida contro i dipendenti litigiosi invitati ad abbassare la voce «ir-re-mis-si-bil-men-te» e il paragone finale (n fatale) con la Juve. Ci resta anche una speranza. Che la Rai non avrà un altro presidente dopo di lui. Nessuno si illudo che la politica molli la presa, ma osiamo augurare ai telespettatori che l'amministratore unico di una Rai finalmente privatizzata sarà un professionista con tre «a» - autentico, autorevole e un po' autoritario - non un mutante con i baffi di D'Alema, la voce di Prodi, il portaocchiali di Bertinotti e la conoscenza dell'inglese di Veltroni. Massimo Gramellini L'ultimo abbandono in un sistema che non funziona più
Luoghi citati: Torino
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