«Siamo un popolo martire»

«Siamo un popolo martire» «Siamo un popolo martire» Il Lider Maximo: soffocati da una grande potenza L'AVANA DAL NOSTRO INVIATO Le parole e i gesti che il Papa e Castro consegnano agli interpreti e al tempo partono da lontano, figli di diverse esperienze e lunga meditazione. Entrambi si presentano all'appuntamento fortificati dall'importanza del momento: Castro impettito e fiero ai piedi della scaletta dell'aereo, Wojtyla senza appoggi né esitazioni nel discenderla, primo Pontefice a baciare la terra e i figli della rivoluzione. In quella che si annuncia come una lunga schermaglia dove ogni parola verrà soppesata e tramandata ai posteri, è Fidel, per dovere di protocollo, a rompere gli indugi. Accompagna il Papa alla sedia foderata di rosso ef silKT^ina al microfono impugnando un mazzo di pagine. Andrà iscritto tra i «miracoli» propiziati dal Papa il fatto che parli per soli quindici minuti. Questo non gli impedisce di partire dagli albori del mondo, dalla conquista coloniale del Sud America e «dall'olocausto perpetrato dai Conquistadores». Ispirato e deciso, senza le incertezze delle sue ultime apparizioni pubbliche, Castro paragona i cubani vessati dagli Stati Uniti ai cristiani oppressi dall'antica Roma, i martiri della rivoluzione a quelli della religione. Rivolgendosi al Pontefice che tiene gli ocelli chiusi, enigmatico e concentrato nell'ascolto, Fidel impugna la storia e dice: «Oggi ancora si tenta il genocidio cercando di stroncare con la fame, le malattie e l'asfissia economica un popolo che non accetta i dettami della più grande potenza della storia, che nei secoli fece divorare dalle belve tutti coloro che rifiutarono di rinnegare la propria fede». Trascinato dall'orgoglio e dal fervore aggiunge: «Meglio morire che rinunciare alla rivoluzio- ne». Al Papa offre «in un mondo divorato dalla corruzione e dalle diseguaglianze, un'isola di giustizia, attenzione ai poveri e riscatto sociale». Ancora una volta cerca l'alleanza di Giovanni Paolo II sul terreno sociale, proponendo la comune visione contro il neoliberismo e contro un nemico innominato e innominabile, che tutto il mondo conosce e chiama Stati Uniti d'America. La replica di Wojtyla è pronta. La mano è tremante nel sorreggere i fogli, ma la voce no. Le pa¬ role sono chiare e il senso inequivocabile: «Cuba si apra al mondo con tutte le sue potenzialità e il mondo si apra a Cuba perché il suo popolo possa guardare al futuro con speranza». Un colpo all'embargo e uno all'oligarchia dominante nella cosid¬ detta «oasi felice». «Sapete quanto a lungo ho atteso questo momento e so che lo avete atteso anche voi». Un segnalibro nelle pagine della storia in cui la religione a Cuba veniva relegata nelle catacombe dell'Avana vecchia e i preti venivano allontanati sulle navi spagnole per aver illegalmente guidato processioni nei vicoli. «Che la Chiesa abbia qui lo spazio per continuare a servire tutti in conformità con l'insegnamento di Cristo». Una condizione ineliminabile perché il patto con Castro possa trasformarsi in un accordo duraturo. Ancora strette di mano e gesti diplomatici, ma nel ricomporsi in forme ufficiali le due icone di fine millennio hanno già messo in chiaro le regole della loro partita a scacchi e delineato le strategie. Ogni parola è stata soppesata, quelle troppo pesanti («embargo», «Stati Uniti d'America») sono state volutamente lasciate fuori dai discorsi perché la loro assenza fosse ancor più carica di significato. La folla, lontana da queste schermaglie, ha assistito festante all'inizio del duello, scandendo slogan («Si sente, si sente/il Papa è qui presente» e «Giovanni Paolo secondo/ti aspetta tutto il mondo») e sventolando fazzoletti e bandierine. Fino all'ultimo istante prima dello sbarco di Wojtyla, Castro ha fatto di tutto perché fosse chiaro, al mondo e soprattutto ai cubani, che il Pontefice si muove sotto la sua egida. Seguendo il percorso che conduce Giovanni Paolo II dall'aeroporto José Marti alla nunziatura apostolica, che lo accoglie nell'ombra e nel riposo dopo il lungo volo, si ha l'impressione di quanto forte sia l'etichetta che Fidel ha posto sull'avvenimento e di quanto lontano sia il popolo che lo segue da una svolta nel proprio destino. Tutto lo straordinario a cui ci ANNI PAOLO I! moggio 1920 o owtce {Polonio*! pa ii 16 ottobre 9/8 a 56 anni. oro il solo Paese ico Latina che il avesse visitato. l^K HAITI 3$ a m - Wm; e °at0 assistere appare come una sequenza di spot prima della ripresa del programma, destinato anch'esso a concludersi, ma non è scritto quando, né cosa andrà in onda dopo. E' eccezionale, certo, il dispiegamento di l'olla che accompagna il trasferimento del Papa, ma sono giorni che il lungomare del Malecon e i vicoli della città vecchia _.vengono attraversati da vetture con l'altoparlante che invitano, a nome del governo, a presenziare all'arrivo dell'ospite. Lo ha chiesto Fidel Castro nella sua apparizione televisiva. Lo chiedono, a ogni quarto d'ora, gli annunciatori delle radio di Stato e quelli televisivi («Mostriamo al mondo che sappiamo come si riceve un ospite»). Lo chiedeva, ieri mattina, «Granma», l'organo ufficiale del partito, che tempo fa, in Italia, venne allegato al «Manifesto» e ora potrebbe essere distribuito con l'<cAvvenire», tanto è lo spazio che dedica alle interviste ai vescovi (ieri ò toccato al cardinale Roger Etchegaray, presidente della Pontificia commissione «Giustizia e pace», chiedersi: «Come si può giustificare un embargo che opprime un Paese da oltre trentacinque anni?»). La gente dell'Avana ha risposto alla chiamata. Il Papa l'ha vista ai bordi della strada, con gli abiti della festa, erudita da giornali e volantini sull'identità del benedicente «uomo biancovestito» e sui suoi trascorsi di lavoratore «para ganarse la vida», proprio come loro. Ha visto le bandiere alternate, quella di Cuba e quella vaticana, issate nel mattino lungo i viali cinti da palme reali. «Uniti in una sola causa, sotto una sola bandiera», diceva però uno degli striscioni dell'Avenida Bojeros, come fosse un lapsus freudiano del comandante. «In questo mondo devono cessare l'egemonismo, l'arroganza e l'egoismo. Firmato: Fidel», proclamava un altro monito appeso sul Paseo a dondolare dinanzi alla «papamobil». E ancora, frasi di José Marti («La patria è l'umanità») e affermazioni incontrovertibili («Cuba, terra di pace, verità e giustizia sociale»), cascami di retorica e ciarpame propagandistico a cui si sovrappongono segni della croce e gesti benedicenti in un connubio inedito e dal significato indecifrabile. Castro ha ordinato l'entusiasmo popolare e il Papa lo ha raccolto, più che suscitato. Per tre volte la sua auto oltrepassa la scritta «Crediamo in Fidel». Altrettante la scritta «Crediamo nella Rivoluzione». Ai piedi e sopra i muri su cui è tracciata, migliaia di persone che non credono più né all'uno né all'altra, e neppure sembrano pronti a impegnarsi in altre, trascendenti visioni del mondo. Gabriele Romagnoli VISITA AL LEBBROSARIO Ì5 MESSA MATTUTINA NELLA PIAZZA DELLA RIVOLUZIONE, INCONTRO CON NUNZI E VESCOVI E PARTENZA PER ROMA GIOVANNI PAOLO I! Notoil 18 moggio 1920 o ;. Vfodowtce {Polonio*! B&tto ropa ii 16 ottobre 19/8 a 56 anni. Cuba oro il solo Paese dell'Americo Latina che il Popò non avesse visitato. l^K HAITI 3$ a m - Wm; «Abbiamo subito l'olocausto dai Conquistadores poi siamo stati oppressi come i cristiani a Roma» «Oggi si tenta ancora il genocidio cercando di esaurirci con la fame, le malattie e la totale asfissia economica» La cordiale stretta di mano tra Giovanni Paolo II e Fidel Castro ai piedi della scaletta dell'aereo