«I miei indios alla porla dell'inferno»

«I miei indios alla porla dell'inferno» «I miei indios alla porla dell'inferno» 77 vescovo Ruiz: nel Chiapas assalto finale SAN CRISTOBAL DE LAS CASAS DAL NOSTRO INVIATO «Siamo tutti fermi davanti a questo bivio, da una parte c'è la mediazione che porterà alla pace, dall'altra c'è la guerra che porterà altro sangue». Quando compare in questo largo ufficio accanto alla sua chiesa, la Cattedrale, nuvole nere già assediano il cielo alto e splendente, su questa città gentile e colorata di arancio, San Cristobal, dove transitano convogli militari verso il Nord, gli Altos e la Selva, rifugio dell'esercito di Marcos e inferno dei 12 mila indigeni desplasados che si ammalano e muoiono nel fango dei campi di raccolta. Samuel Ruiz è il gran padre degli indios, nominato vescovo dello Stato del Chiapas da Giovanni XXIII 37 anni fa. Indossa un vestito grigio, la cravatta, un crocefisso di ambra e argento. Ha 73 anni, la pelle e gli occhi scuri, folte sopracciglia, la voce potente. Tanti anni fa ha detto di essere stato «convertito una seconda volta» dagli indios, tanto è forte e calda e viva la loro fede praticata nei luoghi dell'estrema povertà planetaria, gli altopiani del Chiapas, le gole, la Sierra, il verde impenetrabile della macchia. I generali del presidente Zedillo, oggi, lo accusano di zapatismo e se Marcos è «il subcomandante», per loro Samuel Ruiz è «il comandante Sam». Lui sorride, anche se ha la faccia segnata da rughe e stanchezza: «Io ho una sola fede, dovrebbero saperlo...». II Vaticano (dopo anni di ostilità) ora lo ha nel cuore e l'Europa guarda a lui come a una delle chiavi possibili per impedire la guerra che sarebbe genocidio, prima di tutto, e catastrofe economica, disordine sociale, definitivo isolamento del fragile Messico in transizione. L'ultima volta che ha parlato ai giornali del mondo era nella notte di Acteal, 22 dicembre scorso, 45 indios tzotzil - 10 uomini, 21 donne, 14 bambini - uccisi dai paramilitari davanti alla chiesa del pueblo: fucili automatici, rastrellamento, esecuzioni e poi sventramento delle donne secondo la tecnica rituale dei kaibiles, le forze speciali antiguerriglia guatemalteche arruolate come istruttori in questa guerra di bassa intensità iniziata nel 1994. Parlò e disse: «Questo è un crimine contro l'umanità. Il mondo ci ascolti». Oggi, a un mese di distanza, rompe il silenzio: «Il bivio è qui, davanti a noi» dice guardando la finestra che dà sullo zocalo, la piazza centrale di San Cristobal, dove danzano le ombre delle nuvole in corsa sul bianco della calce. «L'esercito è dispiegato, tutte le strade della regione sono controllate dai posti di blocco, dagli insediamenti militari e dai convogli. Quello che si respira è una induzione alla violenza, allo scontro fatale... Noi chiediamo pace. Gli indios chiedono giustizia e terra. Marcos e i suoi chiedono garanzie e dialogo...». Lei dice, monsignore, che il governo sta preparando la guerra? «Io guardo ai fatti. Guardo la strategia. In questi 4 anni si sono moltiplicate le bande paramilitari che terrorizzano gli indios, invadono i pueblos, avvelenano le fonti dell'acqua, incendiano i raccolti, profanano le chiese Uccidono». Gruppi paramilitari come Paz y Justicia, come la Ma schera Rossa... «Sì, dove arruolano campesinos e persino indios... E hanno armi, soldi, addestramento militare e copertura politica». E' stato provato che la Seguridad publica, la polizia dello Stato, non è volontaria mente intervenuta « Acteal, e che persino il go vernatore del Chiapas, costretto a dimettersi una decina di giorni più tardi, ha lasciato che le cose accadessero. «Esatto. Ma c'è di più. Tra i paramilitari ci sono ex uomini della polizia di Stato. Ci sono uomini delle municipalità che hanno interessi economici locali e che vogliono rompere la rete delle comunità indigene». Lei accusa direttamente il pri, il partito rivoluzionario istituzionale, che da 70 anni nèvcgnbp7 governa qui nel Chiapas, come in tutto il Messico. «Io non accuso, constato». Diceva della strategia... «La strategia, dal 1994 a oggi, è stata questa: attacchi e provocazioni dei paramilitari, rottura delle comunità con gli indigeni in fuga verso i campi profughi e immediatamente dopo, con la scusa di proteggere - ma proteggere cosa, le comunità distrutte? - ecco che arriva l'esercito a prendere posizione, costruire caserme e accampamenti stabili. Oggi l'occupazione militare è completa». Dicono ci siano 45 mila soldati nel Chiapas, compresi parecchi reparti di élite, addestrati all'antiguerriglia. «Credo che la cifra sia attendibile». Marcos e il suo esercito - si dice di 10 mila uomini - si è ritirato nel Nord, emette proclami, e nei proclami scrive che non accetterà lo scontro militare fino a che gli sarà possibile. «Marcos, dopo la guerra dei 12 giorni nel gennaio del 1994, non ha mai accettato lo scontro militare. Lo zapatismo non è una guerriglia. Non ha nulla a che fare con le tradizionali formazioni armate dell'America Latina...». In Messico ce ne sono 14 concentrate nella zona di Oaxaca e nello Stato del Guerrero... «Sì e sono per lo più di tradizione marxista leninista: terrore, incursioni armate, omicidi... Guerriglie che hanno al primo punto la presa del potere: abbiamo aspettato giustizia sino adesso, non ce l'avete data, combatteremo per averla prendendoci il potere... No, lo zapatismo non è questo, lo zapatismo è prima di tutto comunicazione dei valori, dei diritti, delle ragioni degli indios. Le armi sono state il grido di una speranza infranta, di una sofferenza immensa... Ma quelle stesse armi hanno taciuto in tutti questi anni, sono state sostituite dalle parole...». Anche Marcos è stato convertito dagli indios... «Sì. Ed è riuscito nell'impensabile, è riuscito a fare arrivare nella Selva, tra le pietre e il fango, gli uomini del mondo globa- lizzato e dei computer, gli intellettuali dell'America ricca, i politici della vostra Europa... Pensi: le televisioni di tutto il mondo, gli scrittori, i parlamentari di decine di Paesi occidentali si sono seduti davanti agli ultimi della Terra, ai più poveri, ai più indifesi, per ascoltare le loro ragioni». Lei disse: mi hanno convertito. Mi racconta come andò? «Vede, io arrivai qui 37 anni fa. Andai per la prima volta a dire messa in un pueblo del Nord, entrai in una chiesa minuscola e la trovai così piena che quasi non si poteva respirare... Pensai ecco la fede viva, la fede che marcia. Mi emozionai...». E poi cosa accadde? «Che i proprietari terrieri del paese mi avevano preparato cibo, bevande e un letto in una grande casa, ma che tutto quello che mi veniva offerto era stato accumulato con il lavoro di una settimana degli indigeni. Così io smisi di dormire nelle case padronali. E agli indios di ogni villaggio dissi: posso mangiare quello che mangiate voi, posso dormire dove dormite voi. E dissi: fratelli, è con voi che voglio stare. Cominciai a ascoltare le loro storie. Nessuno in Occidente può immaginarla la loro povertà. Un indio può venire ucciso da un padrone messicano perché attraversa il campo, violandone la proprietà. Una donna india può venire uccisa perché dopo dieci ore di lavoro si ferma... Gli indios sono il 75 per cento della popolazione di questa regione che è ricca di petrolio, acqua, uranio, ma non hanno nulla, la loro vita non vale nulla, esattamente come 500 anni fa, quando arrivarono gli spagnoli». Gli spagnoli e la Chiesa... «La Chiesa, sì, che ne fece un oggetto di evangelizzazione, mentre gli spagnoli li sottoposero a un potere annichilente». Oggi Giovanni Paolo II parla degli indigeni come di un soggetto m evangelizzazione. «E' un cambio rivoluzionario. Dall'Alaska alla Patagonia gli indigeni hanno ricominciato a parlare. Qui nel Chiapas, come in Perù, in Bolivia, in Paraguay, in Brasile... Il Santo Padre ha detto: siete voi i soggetti, è attraverso il vostro destino che l'intero Continente si potrà integrare o si avvierà alla distruzione». Essere vivi o essere morti, è questo il bivio di cui parla? «Tutto si giocherà nelle prossime settimane. Da un lato c'è l'esercito e i paramilitari, dall'altro la società civile messicana, le pressioni del mondo e dell'Europa in particolare. La via è il dialogo». Una via che il presidente Zedillo dice di voler imboccare. Salvo che sia ancora in grado di governare l'esercito. «Si suppone che lui sia il capo dell'esercito, no? Si suppone. Ma io non posso sapere quello che farà Zedillo... So quello che farò io: lavorare senza sosta perché esseri umani muoiono ogni giorno nei campi, perché la giustizia è calpestata, perché la dignità è infranta, perché l'intero Paese è sull'orlo di un baratro». Lei oggi si sente in pericolo di vita? «Ah! Non ho tempo di sentirmi in pericolo. Lavoro tutti i giorni dalle 6 del mattino a mezzanotte. Giro nella mia diocesi che è grande come un pezzo della vostra Italia, scrivo, dirigo la Commissione nazionale di intermediazione. Prego». Eppure due mesi fa, il 5 novembre, fu minacciato di morte. «Mi fecero sapere che se fossi andato a Tila, un paesino del Nord, mi avrebbero fatto un'imboscata e poi avrebbero punito la comunità». Lei cosa fece? «Pensai che, se non fossi andato, avrei dato più forza a chi mi minacciava. Ma pensai anche che mettevo in pericolo l'intera comunità minacciata di rappresaglia a causa mia. Così mandai due sacerdoti a informare gli indios del rischio e loro dissero: preferiamo morire piuttosto che rinunciare...». Lei andò con una carovana di religiosi... «Sì. Celebrai la messa, c'erano la chiesa e la piazza piena, e all'uscita, sulla strada, incentrai le camionette degli uomini di Paz y Justicia. Mi fermai, dissi al loro capo delle minacce. E lui: nessuna minaccia, monsignore. Gli dissi: so che era pronta un'imboscata per me. E lui: se ci fosse stata una imboscata, monsignore, lei ora non sarebbe più vivo». Pino Corrias «Marcos chiede garanzie e dialogo Gli squadroni paramilitari uccidono e ora minacciano anche me Ma il Vaticano e l'Europa mi appoggiano» La marcia di indios verso Città del Messico e il vescovo Samuel Ruiz