E adesso spunta il bertinottismo di destra di Guido Tiberga

E adesso spunta il bertinottismo di destra La liberalizzazione del commercio decisa da Prodi rischia di mettere in crisi l'anima liberista del Polo E adesso spunta il bertinottismo di destra LIBERISMO sì, ma con molta, molta prudenza: specialmente se non si intende intaccare il rapporto di fiducia con un blocco sociale vasto e ramificato (ed elettoralmente redditizio). Liberismo sì, ma molto, proprio molto in astratto. E così i thatcheriani d'Italia si arrestano di fronte a una saracinesca abbassata in segno di protesta e i reaganiani d'Italia, senza timori di accostamenti bizzarri, s'affiancano solidah a chi maledice la deregulation. Meglio ammiccare ai commercianti in rivolta che tener fede al verbo della liberalizzazione dell'economia e del commercio. Meglio schiacciarsi su un bertinottismo di destra, protestatario e furioso con il Palazzo, che esultare per l'allentarsi dei lacci e lacciuoli che soffocano il commercio e negano agli italiani maggiori opportunità e più libertà di scelta. L'evocazione dell'«esproprio» ai danni della libera impresa, la denuncia delle modalità addirittura «comuniste» che avrebbero indotto il governo dell'Ulivo a promuovere una rivoluzione nel commercio italiano, l'appello al «ceto medio» minacciato e offeso, insomma il tono complessivo delle dichiarazioni con cui Silvio Berlusconi ha fragorosamente bocciato la liberalizzazione del commercio schierandosi a fianco della corporazione dei commercianti assomiglia pur sempre al lessico e alla simbologia adottati dal Polo nella polemica contro il «regime» ulivista. Ma che il fronte dei liberalizzatoli per antonomasia dell'economia italiana (con il concorso persino degli ultraliberisti della Lega) dovesse finire per situarsi nella stessa trincea dei nemici della libera competizione, questo davvero era difficile da immaginare. La polemica vigorosa contro il dirigismo economico? Cancellata. La battaglia contro uno Stato che si intromette in ogni minuzia della vita sociale ed economica, contro l'invadenza burocratica, contro la mania statalista di regolamentare tutto, disporre di ogni spazio, estendere ogni genere di controllo e di proibizione? Cancella- ta. E l'esaltazione dei «ceti produttivi», l'invocazione liberista allo smantellamento di barriere e limitazioiu, l'insofferenza per i vincoli asfissianti e farraginosi, l'ostilità per la mania delle «regole» tipica di una sinistra pedagogica e autoritaria che non sopporta una società emancipata da una politica troppo pervasiva e onnipresente? Niente: cancellato anche questo. E tutto nel nome della sacra alleanza con i commercianti di Bilie che agita no lo spettro del «Far West» esattamente nei temimi sin qui adottati dagli avversari del liberismo di volta in volta, secondo il casto lessico dello statalismo, «sfrenato» e/o «selvaggio». E se non sorprende che a fianco dei commercianti si schieri con bellicosa baldanza un partito come Alleanza nazionale che lo statalismo lo porta nel suo codice genetico, stupisce (e stupisce in modo par di capire particolarmente doloroso liberisti di collaudata coerenza come Antonio Martino, Sergio Ricossa e Marco Taradash) che un movimento e un leader che han fatto della libertà d'impresa (e di «intrapresa») il loro motto e la loro bandiera considerino un irrimediabile male la scomparsa delle licenze di commercio, la riduzione e semplificazione delle tabelle merceologiche, la parziale liberalizzazione degli orari di apertura e di chiusura dei negozi. E invece di invocare la rimozione di quelle residue barriere che anche con l'ultima rivoluzione impediscono l'esercizio di una effettiva libertà di commer¬ cio (un fisco troppo esoso, la scarsa flessibilità nelle assunzioni e nei rapporti di lavoro), invece di proporre eventualmente misure di indennizzo verso quei commercianti che vengono pesantemente penalizzati da una rapida abolizione delle licenze di commercio, preferiscono assecondare le resistenze conservatrici di chi c'è già a scapito di clù vorrebbe cominciare ad esercitare la «libertà d'impresa» ma deve vedersela con privilegi e monopoli, di chi è dentro a scapito di chi se ne sta «fuori» condannato dagli arcaismi e dalle rigidità di un'economia ingessata e allergica alla libera concorrenza. Non si diceva invece che la «destra» incarnasse pur sempre il polo dell'iimovazione e del dinamismo, dei non garantiti e degli outsider? Si diceva. La rivoluzione del commercio ha cambiato molte cose offrendo però al fantasioso consumatore italiano una nuova varietà: il reaganiano statalista. Bizzarrie italiane. Pierluigi Battista mentalizzazione, e questo atteggiamento è il prodotto di un'educazione meticolosa che ha forgiato mi modo di pensare dei comunisti che si credono moralmente e civilmente al di sopra di tutti». E Giuliano Ferrara, un altro ex, bolla il saggio di D'Alema con una battuta sprezzante: «E' mi articolo stitico». Poi spiega: «Il salto culturale e ideologico per la sinistra italiana riguarda il presente. D'Alema può fare tutti i monumenti che vuole alle vittime dello stalinismo, ma la cosa migliore da fare sarebbe rifiutare il giustizialismo. Avrei preferito una vera, robusta e seria svolta garantista». Il direttore del Foglio diventa pungente pensando alla Cosa 2: «D'Alema è molto bravo a riconoscere i meriti delle forze laiche e socialiste sconfitte dalla rivoluzione giudiziaria, ma allo stesso tempo li prende sotto la sua tutela: "Se volete salvarvi - dice - venite con me"...». La presa di coscienza di D'Alema solleva perplessità anche a sinistra, fi non soltanto dalle parti di Rifondazione, dove Marco Rizzo la liqxiida cosi: «I comunisti italiani sono in regola. Non abbiamo intenzione di lare abiure in nome di una nuova sùiistra, anche perché la storia di questo secolo insegna che tutte le esperienze socialdemocratiche sono fallite, in Europa e nel mondo». Anche sotto la Quercia pds c'è chi storce la bocca. Aldo Tortorella, al convegno delle Frattocchie che ha riunito la sùiistra pidiessina, dice testualmente: «Con Togliatti, l'errore del pei fu pensare che ci fossero un capo e una fede. E oggi, con D'Alema, riaffiora mia mentalità antica: ci sono di nuovo un capo, mia linea e un partito: chi dirige è il partito, chi propone politiche diverse è il dissenso». E dalle Frattocchie piovono anche suda parte dell'articolo del segretario che loda il Papa per il suo atteggiamento dopo la caduta del muro: «Il pontefice non ha interpretato la caduta del comunismo come la fine della storia e la pacificazione del mondo - scrive D'Alema - Al contrario, ne ha tratto stimolo per levare più alta la sua voce contro le ingiustizie e la disumanità di una crescita dominata solo dal profitto». E Fulvia Bandoli, responsabile del pds per l'Ambiente, commenta così: «Quale critica dell'esistente possiamo fare noi quando per esprimere d nostro desiderio di sconfiggere le ingiustizie dobbiamo ridurci a citare il Papa, che certo non è di sinistra?». Guido Tiberga Silvio Berlusconi

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